UNIVERSITÀ E SCUOLA

Obbligo fino a 18 anni? Sì, ma lavoriamo sulla scuola

“Un’economia come la nostra, che vuole davvero puntare su crescita e benessere, deve puntare sull’economia della conoscenza (…) Ma se tu punti su questo devi sapere che il percorso educativo e formativo deve avere la più ampia partecipazione possibile”. Così il ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca Valeria Fedeli ha motivato, nel corso di un incontro, l’auspicio di aumentare fino a 18 anni l’obbligo scolastico. 

Una dichiarazione che, a parte le possibilità concrete di realizzarsi in una legislatura ormai al capolinea, offre comunque lo spunto per riflettere sul possibile ruolo della scuola per la formazione dei ragazzi, in un mondo che sembra cambiare sempre più in fretta. In Italia oggi l’istruzione è obbligatoria nella fascia di età compresa tra i 6 e i 16 anni, anche se durante il ministero di Letizia Moratti si parlò di portarla fino a 18.

A livello europeo, secondo il rapporto Compulsory Education in Europe 2016/17 della rete Eurydice, c’è una discreta varietà sia nell’età di ingresso nel sistema scolastico (dai 6 anni della maggioranza dei Paesi ai 3 dell’Ungheria), che nella durata del ciclo formativo obbligatorio (si passa dai 9 ai 13 anni). Per quanto riguarda l’età di uscita, è di 18 anni soltanto in 4 paesi su 38 (Belgio, Paesi Bassi, Portogallo e 12 Lander tedeschi), mentre arriva addirittura a 19 in Germania (5 Lander) e in Macedonia. C’è da aggiungere che in alcuni Paesi (Austria, Polonia e Inghilterra), dopo la conclusione ufficiale degli studi a 16 anni, gli studenti devono restare comunque nei percorsi di istruzione o formazione fino alla maggiore età, anche se la frequenza a tempo pieno non è obbligatoria.

In questo quadro che senso ha parlare di innalzamento dell’obbligo scolastico anche in Italia? “È doveroso premettere che esiste una differenza tra l’obbligo scolastico (compreso tra i 6 e i 16 anni) e l’obbligo formativo, ossia il diritto/dovere, da parte dei giovani che hanno già assolto all’obbligo scolastico, di frequentare attività formative fino all’età di 18 anni – risponde Marina De Rossi, docente di metodologie della didattica all’università di Padova e delegata alla formazione degli insegnanti presso lo stesso ateneo –. Nel secondo caso ogni giovane potrebbe scegliere, sulla base dei propri interessi, di proseguire gli studi nel sistema dell’istruzione scolastica, oppure di rivolgersi alla formazione professionale, la cui competenza è della Regione e della Provincia, o a un percorso di apprendistato: un contratto di lavoro a contenuto formativo finalizzato a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e al conseguimento di una qualifica professionale. Si potrebbe Infine optare anche per la frequenza di un corso presso un Centro provinciale per l’istruzione degli adulti”. In ragione di ciò fino ai 18 anni sarebbe importante mantenere i ragazzi collegati a un percorso di formazione: “A patto però di pensare a una scuola che sviluppi competenze, anche quelle trasversali declinate come soft skills, e non si limiti a trasmettere conoscenze di contenuti – continua la docente –. La domanda vera insomma è che tipo di scuola vogliamo e sappiamo offrire alle giovani generazioni”.

Spesso oggi si parla di formazione e di educazione permanente, dalla nascita alla terza età: “Se da una parte in quest’ottica si tende ad abbassare l’età di ingresso, considerando anche la scuola dell’infanzia e persino il nido come un periodo educativo molto importante, dall’altra è naturale parlare di aumentare l’obbligo pensandolo, però, nella significatività del termine formazione”. E come si collegherebbe questa misura con la sperimentazione, annunciata sempre dal Miur, dei licei di quattro anni? “Potrebbe essere coerente per stabilire che l’assolvimento dell’obbligo coincida con il termine del percorso scolastico, quindi con il conseguimento di una certificazione e il raggiungimento di un traguardo. In quest’ottica andrebbero rivisti attentamente i curricoli riflettendo sulla scelta metodologica, evitando operazioni di mera compressione di quantità di contenuti”. Che influenza potrebbe avere questa scelta sull’accesso all’università, dato che l’Italia continua ad essere uno dei paesi industrializzati con meno laureati? “Positivo, sempre però nell’ottica di un collegamento effettivo tra scuola e università e con un importante lavoro sulla didattica orientativa come processo di continuità. Temi sui quali l’ateneo di Padova di sta impegnando molto”.

Innalzare l’obbligo scolastico non può quindi essere disgiunto da un ripensamento che coinvolga l’intero sistema scolastico. “Più che un ripensamento sarebbe necessario continuare a qualificare il percorso intrapreso da qualche anno, a livello europeo ma anche nazionale – prosegue De Rossi – lavorando a un’idea di riconversione dell’idea di istruzione, da mera trasmissione delle conoscenze a costruzione delle competenze. Ad esempio lavorando sul miglioramento della didattica, attraverso format innovativi e tecnologie e sulla personalizzazione dei percorsi di studio. Occorre inoltre ottimizzare al meglio l’alternanza scuola-lavoro, che non deve essere ridotta a brevi periodi di stage ma deve essere pensata come una struttura complessa, co-progettata in un’ottica sinergica tra esperti educatori/formatori ed esponenti del mondo del lavoro: un momento attraverso cui gli studenti possano davvero sviluppare le competenze e maturare progettualità, talenti e obiettivi”.

Certo, ci sono anche delle critiche da parte di chi non vede di buon occhio queste commistioni: “Il dibattito è superato anche dal fatto che oggi l’alternanza scuola-lavoro è prevista anche per i licei, non solo per gli istituti tecnici e professionali – risponde De Rossi –. Non si tratta di introdurre nella scuola semplici forme di apprendistato, ma di un’effettiva alternanza formativa tra ambienti diversi ma in qualche misura complementari, in grado di offrire diverse esperienze di apprendimento, sfidanti e motivanti”.

La scommessa, insomma, è quella di una scuola sempre più inserita nel cuore della realtà e della complessità sociale: “Altrimenti il rischio è di aumentare la dispersione scolastica, se a qualunque misura normativa non corrisponde una maggior qualificazione della didattica e anche la progettazione di un lavoro sulla motivazione. Spesso oggi l’abbandono non è più dettato dalla scelta di un lavoro, come accadeva spesso in passato, ma dalla perdita di interesse del ragazzo o della ragazza che non si identificano più nel luogo scolastico, che non sentono proprio”. C’è poi il problema dei cosiddetti Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: un quinto dei ragazzi italiani tra i 15 e i 24 anni, secondo l’indagine 2017 sull'occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa (Esde). “Negli ultimi anni il fenomeno della dispersione sta mutando – conclude la docente –: a fronte di un’offerta di lavoro quasi inesistente per i più giovani abbiamo un tasso di dispersione scolastica ancora alto, anche nel nord del Paese”. Bisogna insomma lavorare perché la scuola sia percepita dalle nuove generazioni come uno spazio di domande ma anche di risposte, dove poter sviluppare la propria personalità e la propria identità. “Una scuola così, certamente si può fare fino a 18 anni! Se invece l’innalzamento dell’obbligo fosse solo uno spot per dire che siamo un Paese civile, oppure una misura per mantenere i livelli occupazionali a fronte del calo demografico, senza però rispondere alle esigenze di maturazione e di formazione, rischiamo che alla fine si tratti di un provvedimento inutile se non addirittura dannoso”.

Daniele Mont D’Arpizio

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