UNIVERSITÀ E SCUOLA

Polemica sugli Erc: “L’Italia non riesce a tenersi i propri ricercatori”

All’inizio sembrava una buona notizia: 30 finanziamenti Erc Consolidator assegnati nel 2015 dal Consiglio europeo della ricerca a ricercatori italiani: un dato che ci poneva, a pari merito con Francia, al terzo posto in Europa dopo tedeschi (48) e britannici (32). “Un'altra ottima notizia per la ricerca italiana” aveva infatti commentato su Facebook il ministro dell’Istruzione e dell’Università  Stefania Giannini, subito però smentita sulla stessa popolare piattaforma dalla docente e ricercatrice Roberta D’Alessandro: “Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia ERC e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L'Italia non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi ERC non compaiono, né compariranno mai”.

Una risposta che ha scatenato subito polemiche su giornali e social media, e sulla quale chiediamo un’opinione ad Antonella Viola, da qualche mese arrivata a Padova proprio dopo aver vinto un Erc Advanced Grant. “Spiace dirlo ma la professoressa D’Alessandro ha perfettamente ragione – conferma Viola –. Da anni i dati ripetono la stessa cosa: i ricercatori italiani sono bravi ma non è brava l’Italia a tenerseli, dato che la maggior parte di loro va all’estero. C’è evidentemente qualcosa che non va, quindi era fuori luogo cantare vittoria quando invece si tratta di una sconfitta per il nostro Paese”. Una critica così severa non rischia di essere anche ingenerosa? “Nelle parole di questa ricercatrice si legge tanta rabbia: quella di una persona che ha provato a lavorare in Italia ma che ha dovuto rinunciarvi”.

Anche l’ultimo rapporto sui finanziamenti Erc sembra confermare le parole di Roberta D’Alessandro: su 407 connazionali vincitori di finanziamenti tra il 2007 e il 2013, solo 229 erano collegati a un’istituzione con sede in Italia. E il quadro peggiora se si tiene anche conto dell’incapacità del nostro sistema di attrarre scienziati stranieri: nei sette anni considerati sono venuti a fare ricerca da noi appena 24 studiosi dall’estero. Con un saldo negativo di oltre 200 studiosi, l’Italia risulta quindi lo stato con il bilancio in assoluto più sfavorevole tra i “cervelli in fuga” e quelli attratti dall’estero: non solo menti brillanti che scelgono di lasciare il nostro paese, ma anche fondi importanti sottratti alla nostra ricerca per arricchire quella di altri paesi.

Le ragioni di questa situazione sono molteplici: “In Italia, rispetto ad altri paesi, ci sono poche possibilità di attrarre finanziamenti oltre a quelli europei, ad esempio dal governo oppure dalle charities. Soprattutto, all’estero c’è la sicurezza di un percorso scientifico e professionale che dipende esclusivamente dal merito”. Quanto contano invece le condizioni di lavoro, ad esempio l’ostacolo della lingua? “La lingua poco o nulla. A Lisbona ad esempio ci sono due ottimi centri ricerca in campo biomedico, e i ricercatori sono felici di sceglierli anche se il portoghese non è certamente più facile dell’italiano. Per il resto, anche per uno studioso contano lo stipendio, le prospettive di carriera e le facilities: da noi ad esempio non c’è ancora il concetto di uno start-up package, un pacchetto di misure e di condizioni da offrire al ricercatore per invogliarlo a lavorare in Italia. Alla fine, quindi, in Italia viene solo chi ha motivi personali per farlo. E non perché da noi la nostra ricerca non sia buona”.  Il fatto che comunque le università italiane formino buoni scienziati non rappresenta comunque una consolazione? “Al contrario! Per formare un solo laureato lo stato spende circa 124mila euro: un investimento che sfuma se i giovani vanno a lavorare all’estero”.

Eppure il suo caso, professoressa Viola, sembra andare in una direzione opposta... “Fino a un certo punto: quando ho vinto il finanziamento da 2,5 milioni di euro, al Consiglio europeo della ricerca erano stupiti che il mio ruolo fosse ancora quello di ricercatrice. E non che prima non avessi provato a fare carriera, ma nelle università dove mi ero presentata, tra cui non c’era Padova, semplicemente non c’era spazio per me”. Come mai allora ha deciso di tornare in Italia? “Padova in questo senso per me si è rivelata un’isola felice: qui mi ero trovata molto bene durante gli studi, e quando mi hanno chiamata dalla Svizzera per offrirmi la possibilità concreta di tornare non ho resistito. E anche oggi so che l’università si sta attivando molto per attirare dall’estero i giovani ricercatori di valore. Anche se convincere una persona a rientrare una volta che ha vinto stando all’estero non è certo un’impresa facile”.

Quello di Antonella Viola non è l’unico esempio di ricercatori vincitori di finanziamenti europei che hanno scelto Padova per le loro ricerche, come dimostrano i casi di Elisabetta Collini e di Matteo Millan. Un percorso verso il quale lo stato italiano ha un atteggiamento perlomeno ambivalente: con un decreto dello scorso 28 dicembre infatti il MIUR stabilisce regole più severe per la chiamata diretta da parte degli atenei italiani di persone che hanno vinto dei finanziamenti Erc. Un provvedimento che sicuramente renderà più difficile attirare in Italia gli studiosi più giovani.

Cosa può fare il nostro paese per invertire questa tendenza negativa? “Innanzitutto bisogna fare in modo che ci siano sempre più trasparenza e meritocrazia. In questo senso, già il nuovo concorso per l’abilitazione nazionale rappresenta un cambiamento nella giusta direzione, con criteri chiari a livello nazionale e una valutazione pubblica dei curriculum”. E i passi successivi? “Ad esempio la valutazione dei dipartimenti basata anche sulla capacità di attrarre finanziamenti esterni e di depositare brevetti è un altro passo corretto. Bisogna insomma fare in modo che gli atenei trovino conveniente attrarre, promuovere e trattenere i migliori ricercatori”.

Daniele Mont D’Arpizio

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