SCIENZA E RICERCA

Una scossa elettrica e il cervello torna a posto

Nuove possibilità nella cura del morbo di Parkinson. È questo che lascia intravvedere per il futuro uno studio pubblicato recentemente su Brain e condotto da un gruppo di ricerca dell’istituto di Bioimmagini e Fisiologia molecolare del consiglio nazionale delle ricerche (Ibfm-Cnr) di Catanzaro, in collaborazione con la fondazione Santa Lucia di Roma.

Seconda patologia neurodegenerativa più diffusa in Italia dopo la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson interessa circa 230.000 persone nel nostro Paese. Sono i dati riportati nelle linee guida nazionali, Diagnosi e terapia della malattia di Parkinson, che evidenziano una maggiore frequenza della patologia negli uomini rispetto alle donne (il 60% contro il 40%). Il 70% ha un’età superiore ai 65 anni, solo il 5% meno di 50. Si tratta di una malattia che coinvolge funzioni come il controllo dei movimenti e l’equilibrio e che si stima destinata a raddoppiare entro il 2030 per il continuo invecchiamento della popolazione.

Ma cosa accade di preciso a livello cerebrale? Nel cervello, nella sostanza nera, esistono cellule che producono dopamina. Nel malato di Parkinson queste muoiono e quando la perdita cellulare raggiunge l’80% compaiono i sintomi della patologia: tremori, lentezza nei movimenti e rigidità. Sebbene le cause non siano ancora del tutto chiare, si ritiene che l’origine possa essere multifattoriale e dipendere da componenti ambientali e genetiche. Nella maggior parte dei casi, secondo i dati del ministero della Salute, “sul banco degli imputati sono i fattori ambientali, quali l’esposizione lavorativa ai pesticidi, alla trielina, ai metalli pesanti o la presenza di industrie chimiche sul territorio”. Nel 5% dei pazienti la malattia sarebbe invece causata da mutazioni di geni coinvolti nel funzionamento dei neuroni che producono dopamina.

La terapia farmacologica principale prevede la somministrazione di un farmaco, la levodopa, che viene convertito in dopamina nel cervello. Aumentando la concentrazione di questa sostanza i sintomi diminuiscono, la lentezza dei movimenti e i tremori scompaiono.

Per i primi cinque-sei anni il malato torna a una condizione normale e a una buona qualità di vita. Poi, però, iniziano nuovi problemi. “Dopo questo periodo – spiega Aldo Quattrone, responsabile dell’Ibfm-Cnr di Catanzaro e presidente della società italiana di Neurologia (Sin) – sorgono nei pazienti delle complicazioni legate all’assunzione di levodopa o dopamino-agonisti. Si manifestano cioè fluttuazioni del movimento, movimenti involontari molto rapidi simili a tic che interessano la faccia, la bocca, la lingua, gli arti superiori e talvolta anche gli inferiori (in termini medici discinesie Ndr)”. Si tratta di effetti collaterali del farmaco che interferiscono in modo pesante con le normali attività quotidiane.

“Inizialmente – spiega Quattrone – queste complicazioni possono essere risolte rivedendo la terapia farmacologica e adattandola alle condizioni del paziente, riducendo la dose o aumentando gli intervalli tra una somministrazione e l’altra”. Se si considera tuttavia che abbassando il dosaggio del farmaco può riemergere la lentezza nei movimenti tipica di chi soffre di Parkinson, si intuisce che non si tratta di una procedura semplice. Quando ha successo, però, può restituire condizioni di vita soddisfacenti per alcuni anni e a volte per sempre.

In altre circostanze, specie quando il paziente soffre di Parkinson da 15-20 anni, gli effetti collaterali provocati dal medicinale sono invece difficilmente reversibili e non si riesce a raggiungere quel dosaggio che produce benessere senza effetti collaterali.

“In alcune situazioni – argomenta Quattrone – si può valutare la stimolazione cerebrale profonda, che si pratica inserendo un elettrodo nel cervello e stimolando il nucleo sub-talamico. Si deve tuttavia tenere presente che le linee guida stabiliscono criteri precisi da seguire prima di sottoporre il paziente all’intervento, perché le controindicazioni sono numerose. Il malato, per esempio, non può avere più di 70 anni, non deve avere disturbi della memoria e dunque solo nel 5-10% dei casi si può procedere con l’operazione”. Se l’intervento ha esito positivo, i movimenti involontari si riducono e il paziente riprende una buona qualità di vita, ma non si può trascurare che possono insorgere complicanze come depressione e disordini cognitivi.

Il gruppo di ricerca, dunque, si è chiesto cosa avvenga a livello cerebrale nei pazienti che soffrono di forti discinesie, quale sia cioè l’area cerebrale che non funziona. Gli studi, iniziati già qualche anno fa e condotti su centinaia di pazienti, hanno dimostrato che a essere coinvolto è il giro frontale inferiore destro, che modula i movimenti volontari. In caso di assunzione prolungata di levodopa si osservano alterazioni anatomiche e funzionali. Il farmaco cioè provoca il malfunzionamento di quest’area cerebrale e questo induce l’insorgere di disturbi motori.

Ma non è tutto. Successivamente infatti il team ha sottoposto alcuni malati di Parkinson alla stimolazione magnetica transcranica. Attraverso elettrodi posti sul cuoio capelluto è stato stimolato il giro frontale inferiore destro, individuato come responsabile delle discinesie, e i risultati sono stati promettenti: l’area cerebrale in questione è tornata a funzionare e i movimenti involontari sono scomparsi. “Si tratta – tiene a sottolineare Quattrone – di uno studio ancora preliminare condotto su pochi pazienti e per periodi di tempo brevi. Ora è necessario aumentare la casistica e verificare se l’effetto persiste nel tempo”. La stimolazione dunque dovrà essere quotidiana e il metodo validato per un periodo significativamente lungo per dimostrarne l’efficacia.

Conclude Quattrone: “Non è ancora una terapia a portata di mano, lo dico con molta chiarezza, è una nuova possibilità terapeutica che deve essere confermata. Stiamo lavorando in questa direzione, ma sarà necessario ancora qualche anno per poter dimostrare in modo inequivocabile la validità di questa cura”. E se i risultati saranno positivi sarà possibile pensare a nuovi protocolli che associano al trattamento farmacologico interventi di neurostimolazione per ripristinare le funzionalità motorie nei pazienti.

Monica Panetto

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