SOCIETÀ

Troppi dati, nessun dato

Per ragguagliare i cittadini sui rapporti finanziari più o meno legittimi intrattenuti dai politici che li rappresentano con gli imprenditori, i banchieri e, in generale, i multi-miliardari che ne sovvenzionano le campagne elettorali, negli Stati Uniti esistono enormi e sempre più sofisticati database di informazioni, come ad esempio opensecrets e sunlightfoundation. Banche dati simili sono disponibili anche ai malati che vogliano verificare quanto stretti sono i rapporti tra i loro medici e le cause farmaceutiche che ne sponsorizzano viaggi tutto compreso e pranzi premio.

Negli Usa la questione dell'accesso alle informazioni di rilievo pubblico è ritenuta di fondamentale importanza, tanto che dal 1967 esiste una specifica legge federale, il Freedom of Information Act, o Foia. Grazie ad essa, gli americani interessati – solitamente, ma non necessariamente, giornalisti e avvocati – possono obbligare le varie agenzie del governo nazionale, anche attraverso un’ingiunzione giudiziaria, a rendere pubbliche informazioni prima riservate, fino ai massimi livelli dell'amministrazione (di recente, l’Associated Press ha fatto ricorso al Foia per costringere il dipartimento di Stato a rilasciare le email scambiate, su server privato, da Hillary Clinton quando era segretario di Stato).

“Molte di queste norme sono entrate in vigore negli anni Settanta, in seguito allo scandalo Watergate, quando avevamo funzionari pubblici che letteralmente si scambiavano valige piene di contanti – dice Sarah Bryner, direttore per la ricerca del Center for Responsive Politics – Senza di esse, la gente non ha alcuna possibilità di sapere cosa succede dietro le quinte del governo e, di conseguenza, i politici non sentono alcuna necessità di comportarsi in maniera responsabile giacché sanno che qualsiasi cosa facciano non verranno mai beccati.”. 

Sia grazie alle serie di riforme intraprese negli ultimi decenni, sia alle grandi opportunità offerte in questo senso dalle nuove tecnologie viviamo oggi nell’era della trasparenza(o disclosure in inglese), in particolare negli Usa. Nonostante questo, però, il costo delle campagne elettorali e l’influenza degli ultra-ricchi sulla politica continuano ad aumentare, dottori e case farmaceutiche vanno d’accordo come non mai e la National Security Agency è andata avanti a spiare le comunicazioni telefoniche ed elettroniche dei cittadini americani (oltre che di una serie di leader stranieri, anche alleati) per più di un decennio prima che qualcuno se ne accorgesse.

Tant’è che c’è chi comincia a sospettare che, per una ragione o per l’altra, tutta questa trasparenza non funzioni poi così bene come si era sperato inizialmente. E che, anzi, finisca per far comodo ai potenti di ogni ordine e grado perché permette loro di apparire ben intenzionati nei confronti del pubblico quando invece, inondandoci tutti con una marea di informazioni assolutamente ingestibile, garantisce loro l’opportunità di portare avanti i propri affari più loschi mentre noi guardiamo altrove o non sappiamo proprio più dove guardare.

Come nota Jessie Eisinger su ProPublica, l’esempio più universale di come una quantità maggiore di informazioni non ci renda necessariamente meglio informati, è quello dei cosiddetti "termini di servizio" che le varie aziende, in particolare quelle digitali come la Apple, ci fanno firmare quando ci vendono i loro prodotti. “Come tutti, seleziono la casella ‘accetto’ attraversato però da una vampata di risentimento – scrive Eisinger - Sono certo che al Paragrafo 184 c'è una clausola con cui mi impegno a consegnare a Timothy Cook il mio primogenito per una vita di servitù nel ruolo di primo responsabile del suo cucchiaio di caviale”.

Per farsi un’idea dell’effettiva complessità dell’accordo che si deve sottoscrivere ogni volta che si scarica una versione aggiornata di iTunes, Omri Ben-Shahar, professore di giurisprudenza all’università di Chicago, autore del libro del 2014 More Than You Wanted to Know: The Failure of Mandated Disclosure (di cui è disponibile una trasposizione video condensata), lo ha stampato su carta, attaccando poi i singoli fogli uno dietro l’altro. Ne sono risultati – provare per credere - un totale di oltre nove metri di oscure istruzioni, obblighi e vincoli. Grazie all’innovativo lavoro di ricerca effettuato in proposito da Florencia Marotta-Wurgler della New York University, sappiamo inoltre che solo uno ogni mille consumatori scarica il testo di questo tipo di contratti e, anche tra questi, la stragrande maggioranza ne legge solo una piccola parte.

Certo, non tutte le norme sulla trasparenza hanno un effetto altrettanto perverso. Uno studio di Adam Levitin della Georgetown University ha concluso che l’efficacia della sure è inversamente proporzionale alla quantità e alla complessità delle informazioni presentate. Quindi, ad esempio, il semplice obbligo imposto alle banche dal governo australiano di mostrare il costo di ogni prelievo sullo schermo del bancomat a operazione ancora in corso ha convinto i consumatori a stare alla larga dalle macchine con le tariffe più elevate e, se proprio costretti a usare una di esse, a ritirare più soldi possibili. Ma quando si tratta di pagine e pagine di "legalese" che dettagliano transazioni - si pensi ad esempio all’acquisto di un'auto finanziato attraverso un prestito in banca - che si sviluppano su più livelli, i consumatori finiscono o con il perdersi nei particolari o con l’inorridire di fronte alla montagna di specifiche, ignorandole per intero.

Attenzione però a trarre la conclusione sbagliata da questa premessa. “È vero che il sovraccarico di informazioni può avere l'effetto di disincentivare un cittadino che si sente affogare nei dati e sente di non avere alcun potere di cambiare le cose – dice Bryner – ma da qui a dire che non ci servono norme sulla disclosure il passo è davvero eccessivo, un po’ come buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Quello che serve, aggiunge Bryner, è senz’altro fare uno sforzo ulteriore per semplificare quelli che oggi sono documenti e database troppo tecnici e generalmente inaccessibili a un utente non particolarmente istruito o molto motivato.

Per i sostenitori della trasparenza, insomma, essa è presupposto fondamentale, anzi necessario, al buon governo e al buon funzionamento del mercato, ma non per forza sufficiente. “Senza l’istituzione, innanzitutto, del diritto di informazione, come altro possiamo apprendere della cattiva condotta o dell’inefficienza di attori pubblici, o di pratiche corrotte che debbono essere corrette? – scrive sul New York Times Chris Gates, Presidente della Sunlight Foundation -  Dopodiché, siamo tutti d’accordo che l’applicazione delle regolamentazioni esistenti - con ispezioni più attente, maggiore supervisione, verifiche più frequenti - rappresenta la soluzione più efficace ai problemi che emergono grazie alla trasparenza”.

Valentina Pasquali

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