SCIENZA E RICERCA

Indossabili e intelligenti: i "robot" per disabili

Robot indossabili e “intelligenti” che in futuro potrebbero arrivare a sostituire completamente le carrozzine per disabili. Esoscheletri manovrati dalla mente umana, in una perfetta simbiosi tra uomo e macchina. È questa la nuova frontiera della ricerca nel campo della disabilità e della riabilitazione motoria e i progetti nel settore non mancano, da Symitron a Exo-Legs a Balance, solo per citarne alcuni. Tra questi anche BioMot (Smart Wearable Robots with Bioinspired Sensory-Motor Skills), avviato nel 2014 e finanziato con quasi due milioni e settecentomila euro dalla Comunità europea a cui sta lavorando pure l’università di Padova. 

“Esistono diversi tipi di esoscheletro utilizzati nel campo della riabilitazione – spiega Monica Reggiani responsabile scientifico per l’ateneo padovano che lavora al progetto con Elena Ceseracciu, Alice Mantoan e Luca Tagliapietra – Vengono impiegati ormai da anni per mantenere attiva la muscolatura del paziente nella fase acuta del fenomeno patologico, come nel caso di ictus”. Si tratta in larga parte di strumenti in grado di sostenere la camminata secondo traiettorie predefinite in cui tuttavia il paziente rimane passivo: indossa l’esoscheletro e questo cammina al posto suo. “Certo l’esercizio risulta essere già molto utile, perché la persona non rimane ferma per mesi. Ma si tratta di una riabilitazione parziale che non sostituisce completamente l’intervento del fisioterapista, poiché manca il coinvolgimento dell’individuo”.  

Ora invece si vuole rendere il paziente più attivo nel processo di riabilitazione e più “dialogico” con la macchina. L’obiettivo è di ottenere un controllo cognitivo dell’esoscheletro, che dovrà essere in grado di decifrare le intenzioni del paziente, di capire cioè quando vuole iniziare a camminare, cambiare direzione o velocità. La sfida è trovare il modo. Reggiani spiega che con gli strumenti attuali, nello specifico con un caschetto e degli elettrodi posti sulla testa, si è già in grado di riconoscere quando una persona intende muoversi o quando vuole fermarsi, ma intuire se il paziente vuole andare a destra o a sinistra ad esempio diventa già più difficile, con margini di errore più elevati. D’altra parte le informazioni si possono ottenere anche attraverso segnali elettromiografici che provengono da sensori posti sui muscoli, un approccio cui si sta dedicando tra gli altri oltre al team padovano anche un gruppo di ricerca giapponese, il Sankai laboratory. “In realtà – spiega Reggiani – ha senso utilizzare contemporaneamente entrambi i segnali, sia quelli provenienti dal sistema centrale che dal periferico. Questo perché nel primo caso si raccolgono informazioni su cosa vuole fare il soggetto, nel secondo caso su come intende farlo”. 

Ed è proprio questa la linea che stanno seguendo gli scienziati del consorzio BioMot. Il gruppo lavora su pazienti che vedono compromessa la camminata tradizionale a causa di una lesione e si trovano dunque nella condizione di dover recuperare l’atto motorio. In particolare il dipartimento di Ingeniería de sistemas y automática dell’Universidad Miguel Hernández (Umh) di Elche, sotto la direzione di José Maria Azorín, si sta occupando dell’analisi dei processi cerebrali. Nello specifico vengono registrati e classificati i segnali elettroencefalografici per determinare e studiare quali sono quelli interessati nel processo di movimento e spostamento. Un algoritmo estrae le principali caratteristiche del segnale e un classificatore determina se corrisponde all'intenzione di avviare o arrestare il movimento. 

Il gruppo padovano coordinato da Reggiani si muove invece sull’altro fronte, la parte muscolare. “Esistono nella gamba dei punti di innervazione che inviano un segnale elettrico per attivare il muscolo. In base alle proprietà e alla funzione, il muscolo esprime poi il movimento. Grazie a dei sensori posti sugli arti e a un software che abbiamo creato, siamo in grado di rilevare questo segnale e di prevedere le intenzioni dell’individuo anche se, in caso di specifiche patologie, al comando non corrisponde l’azione”. Il sistema chiamato Ceinms (Calibrated EMG-Informed neuromusculoskeletal modelling toolbox) è il risultato di una collaborazione iniziata ormai cinque anni fa con David Lloyd della Griffith University in Australia ed è disponibile gratuitamente online da un paio di settimane. 

Per raggiungere lo scopo e costruire esoscheletri in grado di interpretare e dare attuazione alla volontà del paziente, accanto alle università di Padova e di Elche lavorano l’Hospital Nacional de Parapléjicos di Toledo e l’azienda spagnola Technaid, la Vrije Universiteit di Bruxelles, l’Agencia del Consejo Superior de Investigaciones Científicas, l’azienda islandese Össur e l’istituto di ricerca Riken in Giappone. 

Se queste sono le premesse, sarà dunque possibile un giorno pensare di sostituire le carrozzine per disabili? “Questo è l’obiettivo finale – argomenta Reggiani – anche se allo stato attuale si pensa soprattutto alla funzione riabilitativa. Si deve considerare che la carrozzina è molto più veloce e, nonostante i pazienti che hanno perso completamente l’uso delle gambe apprezzino la possibilità di poter camminare, l’utilizzo dell’esoscheletro non è ancora possibile nella vita di tutti i giorni”. Esistono problemi di riconoscimento di ciò che il soggetto vuole fare e di alimentazione, dato che uno strumento di questo tipo non è in grado di funzionare per un’intera giornata. Senza contare poi che i materiali di cui sono costituiti gli esoscheletri sono pesanti. “Tecnologicamente – conclude Reggiani – non siamo ancora in grado di eliminare una carrozzina”. 

Ma i progressi della scienza, e la storia lo insegna, in molti casi sanno essere veloci.  

Monica Panetto

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