UNIVERSITÀ E SCUOLA

Insegnare in carcere

Tra rabbia e voglia di riscatto, tra dolore e speranza: cosa accade quando la classe è formata da studenti detenuti? Dalle lezioni negli istituti penitenziari minorili a quelle universitarie, vi raccontiamo le esperienze di alcuni insegnanti che hanno scelto di dedicare il proprio tempo a chi, nonostante le sbarre e la pena, ha chiesto di poter studiare. A qualsiasi livello, per ottenere la licenza elementare, per diplomarsi o, addirittura, per conseguire la laurea. Storie raccontate, per una volta, assumendo il punto di vista di chi in carcere insegna e, superando l’idea di semplice lavoro, vive l’insegnamento come una vera e propria missione. Mario Tagliani lavora nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino (uno dei sedici Ipm presenti in Italia) e ha raccontato la sua lunga esperienza in un libro: Il maestro dentro. Trent’anni tra i banchi di un carcere minorile (add editore). “Come maestro mi piace pensare che quando certe aule scolastiche non saranno più carceri e le carceri saranno diventate scuole, allora il grado di civiltà avrà raggiunto il punto più alto – scrive - Educare in carcere significa educare ad apprendere. Il carcere è stato pensato come un luogo di eccezione (perché delinquere è una eccezione alla regola), e quindi anche la scuola lì dentro deve essere eccezionale […] Chi insegna ai ‘ragazzi difficili’ deve riuscire a costruire il tempo interiore dell’alunno che ha davanti, il quale vive invece un tempo sgangherato, fatto a pezzi, senza alcuna logica. Vive un tempo che è tempo perso. Insegnare diventa quindi dare il proprio tempo, la relazione con l’allievo è una relazione di tempi che vengono a contatto e si scontrano. E in questo tempo dobbiamo educare ad apprendere”. 

Valeria Palazzolo insegna nella casa circondariale Dozza di Bologna. Laureata in Lettere moderne, ha lasciato l’insegnamento in una scuola secondaria inferiore, ha fatto una regolare domanda di trasferimento e ora, da qualche mese, lavora in carcere. “Le cattedre carcerarie sono equivalenti alle altre e fanno parte dei Cpia, Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, dipendenti dal Miur. Quest’anno insegno Studi sociali, cioè storia e geografia”, spiega al Bo. “La soddisfazione è grande perché ho la sensazione di interagire con un mondo altro: credo di imparare di più io da loro che viceversa. In generale, non lavorerei con gli adulti fuori dal carcere, perché trovo più stimolanti i ragazzi: questi adulti però sono portatori di un vissuto così diverso e drammatico che ogni giorno ho la sensazione di portarmi dietro un pezzo di mondo che non conoscevo. Qualche volta, forse, un pezzo di mondo riesco anche a regalarlo a loro”.  E Valeria continua: “La prima cosa che ho notato entrando in carcere è che i reati puniti sono le povertà. I miei studenti patiscono quasi tutti, con ogni evidenza, una povertà culturale, sociale e spesso anche economica che si portano dietro da sempre e che è il motivo principale che li ha condotti dietro le sbarre. Il compito dell’insegnante consiste nell’offrire opportunità a chi apparentemente non ne ha più”. In questo quadro di riscatto e speranza, viene da chiedersi quali siano però le innegabili difficoltà che un insegnante incontra ogni giorno lavorando in aula con i detenuti: “Sono quelle relative alle loro dipendenze: quasi tutti gli stranieri sono dentro per reati legati alla droga e hanno quindi una storia di tossicodipendenza, questo li porta ad avere crisi e sbalzi di umore che a tratti rendono difficile l’integrazione e la concentrazione. Altri giocano in modo compulsivo. Poi ci sono le depressioni più o meno gravi e le contingenze della vita carceraria: chi si aspettava di ottenere uno sconto di pena e non lo ottiene arriva in aula d’umore nero o non arriva affatto. A questo si aggiunge la scarsa collaborazione di una parte del personale penitenziario, anche se devo dire che almeno a livelli alti, per quel che riguarda direzione e ispettori, l’atteggiamento rispetto alla scolarizzazione dei detenuti è abbastanza positivo. Quando un detenuto riesce a superare lo scoglio della depressione, dell’inevitabile pigrizia, della paura di mettersi in gioco, allora la scuola diventa un aggancio importantissimo alla vita. Per il presente, perché permette di far passare il tempo accendendo la mente e la curiosità, in una sorta di bolla in cui si è, nello scambio di rispetto ed esperienze, tutti uguali. E per il futuro, perché si ha la sensazione di ancorarsi a una prospettiva esterna, anche nella forma pratica del diploma di scuola media o superiore”. 

Dopo il diploma, la laurea. Da oltre dieci anni l’università di Padova è impegnata in attività di orientamento, tutorato e didattica rivolte ai detenuti: nel dicembre 2003, grazie a una convenzione tra l’ateneo e il ministero della Giustizia–dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stata avviata una collaborazione per realizzare attività formative per i detenuti degli istituti penitenziari del Triveneto. Per la sua collocazione territoriale, l’istituto penale Due Palazzi di Padova, unica casa di reclusione del Veneto, diventa la sede principale delle attività accademiche condotte in carcere. Nel 2013 è stato siglato un protocollo d’intesa per permettere all’ateneo padovano di essere capofila per la condivisione delle esperienze presenti sul territorio nazionale. Oggi a coordinare le attività didattiche è Francesca Vianello del dipartimento di Filosofia, pedagogia e psicologia applicata: con lei un gruppo di docenti e tutor impegnati ad affiancare e guidare i detenuti nel percorso di studi prescelto. Tra loro c’è Elisabetta Palermo, docente di Legislazione minorile e diritto penale all’università di Padova, da anni impegnata al Due Palazzi: “Attraverso lo studio, al detenuto vengono date nuove opportunità di reinserimento sociale. Queste opportunità nascono dal fatto che lo si rafforza come persona, fornendo strumenti per lavorare nella società. Lo strumento principale è proprio la cultura, che aumenta la consapevolezza di sé e permette di capire l’importanza del rispetto della legalità. Non si tratta di buonismo, ma di diritti fondamentali garantiti dall’articolo 27 della Costituzione”. E conclude: “Tra pochi giorni, per la prima volta, un detenuto del polo universitario del Due Palazzi conseguirà la laurea in ingegneria informatica. Un risultato straordinario, frutto di un lavoro notevole sia da parte del detenuto che dei docenti”.

In carcere si è come al confine, scrive nel suo libro il maestro Mario Tagliani: “Il carcere è un luogo di sosta, di passaggio per chi ha sbagliato, luogo ideato per permettere di ripensare all’errore commesso: si deve allora superare la colpa per arrivare alla responsabilità. La pena deve diventare diritto e non solo punizione. Deve essere il diritto di poter avere un tempo nuovo”.

Francesca Boccaletto

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