SCIENZA E RICERCA

Pizza? Ben stampata, grazie

In un futuro non troppo lontano potrebbe essere sufficiente schiacciare un bottone, o meglio, lanciare una stampa per mangiare una pizza. Fantascienza? Pare di no. Dalle protesi alla bigiotteria, dal settore biomedico ai violini e alle scarpe, la stampa 3d si sta imponendo negli ambiti di produzione più svariati e una delle ultime frontiere è il cibo. Con studi (e investimenti) nel settore date le potenzialità che si intravvedono. E’ recente il finanziamento di 125.000 dollari da parte della National Aeronautics and Space Administration (Nasa) per la progettazione di un “sintetizzatore di cibo” con l’obiettivo di assicurare rifornimenti agli astronauti durante le missioni di lunga durata nello spazio. 

“Una stampante 3d – spiega Paolo Bariani, docente del dipartimento di ingegneria industriale dell’università di Padova – permette di creare oggetti tridimensionali, partendo da file 3d. Deposita gocce o polvere di materiale di vario tipo come metallo o polimeri uno strato sopra l’altro, riducendo l’oggetto a una serie di strati bidimensionali”. Continua Bariani: “Il cosiddetto ‘food printing’ segue lo stesso principio: la differenza sta nel fatto che l’inchiostro è un materiale che si può mangiare, come cioccolato, formaggio, burro di arachidi, pasta per biscotti”. Gli “edible inks” vengono congelati nelle cartucce e montati nella macchina che li riscalda e produce oggetti della forma voluta. 

Ne sono un esempio le creazioni in zucchero di The sugar lab o la pasta dalle forme insolite nelle cucine di Google per accontentare i clienti più esigenti. Unico neo: la lentezza dei tempi di produzione. In altri casi la stampante 3d viene utilizzata per produrre uno stampo (in silicone ad esempio) con cui creare l’oggetto commestibile nella forma desiderata. Ė il caso dello shoe-burger, un hamburger a forma di scarpa ideato da Tristan Bethe, o dei cioccolatini-ritratto proposti lo scorso san Valentino al Tokio FabCafe. Certo, la fantasia non manca e le possibilità offerte dalla scienza nemmeno. Alla Cornell University, dopo la realizzazione di una stampante 3d per il cibo, un gruppo di ricercatori ha studiato anche l’uso di idrocolloidi che, sciolti in acqua a diverse concentrazioni e uniti poi ad agenti di sapore, danno origine a una vasta gamma di prodotti alimentari. 

Ma il progetto della Nasa, affidato ad Anjan Contractor, guarda più in là e si propone di ottenere alimenti partendo dai principi nutritivi di base. In linea teorica, il processo prevede la produzione di cibo utilizzando riserve di amido, proteine e grassi (i macronutrienti) conservati in contenitori sterili che vengono mescolati nella macchina con acqua o olio. Si aggiungono gli agenti di sapore, i modificatori di struttura e i micronutrienti (vitamine e minerali), e attraverso la stampa 3d, il cibo viene realizzato nella forma desiderata. In questo modo potrebbero essere risolti i problemi di conservazione degli alimenti e sarebbe anche possibile rispondere al bisogno di un’alimentazione varia.

Ma la Nasa non è l’unica a investire: lo scorso anno Peter Thiel, cofondatore di PayPal, ha finanziato con 350.000 dollari la start-up Modern Meadow per la produzione di bistecche con la tecnica della stampa in 3d. Obiettivo: ridurre il consumo di carne  e l’impatto ambientale che ne deriva.

Quali dunque le potenzialità del settore? Oltre all’impiego nell’arte culinaria, in futuro dicono i ricercatori della Cornell University, sarà possibile realizzare prodotti alimentari personalizzati anche in piccole quantità diminuendo i costi di produzione oggi ancora alti. Senza contare che le stampanti 3d per il cibo potrebbero diventare “elettrodomestici” da cucina.

Ma c’è chi vede oltre. Accanto alle missioni sullo spazio, la Nasa ipotizza applicazioni anche in ambito militare, con benefici che vanno dalla riduzione dei problemi di logistica nel rifornimento e di smaltimento dei rifiuti, alla possibilità di diete personalizzate in base alle attività dei soldati. 

A fine secolo, si legge nei documenti dell’agenzia, la popolazione mondiale raggiungerà circa i 12 miliardi di abitanti e si prevede che l’industria alimentare non sarà probabilmente in grado di rispondere completamente all’aumento della domanda con le tecnologie attuali. 

A riportare il discorso dal futuribile alla realtà è Gawain Kripke, direttore delle politiche per la sicurezza alimentare e la fame nel mondo alla Oxfam America. Al Guardian dichiara che pur essendo buona l’idea che sta alla base della nuova tecnologia, è improbabile che possa avere un reale impatto a breve termine. Soprattutto quando si parla di risorse alimentari a livello globale. Forse sarebbe più efficace garantire a tutti le tecnologie più semplici: l’utilizzo dei trattori e il rifornimento di semi.   

Monica Panetto

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