SOCIETÀ

Trasporti, la miopia dell’Unione europea

Un colossale equivoco. Per Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale di Venezia, le politiche europee sui trasporti si basano su uno storico, madornale errore di valutazione. Durante un seminario alla Scuola galileiana dell’università di Padova, il politico dal lungo corso ha spiegato come il tremendo ritardo accumulato dall’Europa nel predisporre reti e terminal di collegamento tra gli Stati abbia radici lontane, che tradiscono vizi e miopie duri a morire: impostazioni monopolistiche, frammentazione gestionale, particolarismi. E ricorda che fin dai Trattati di Roma, che nel 1957 istituiscono le Comunità europee, il capitolo dei trasporti sia sempre stato roba che scotta. Tanto da far rischiare il rinvio della stipula dei Trattati, evitata scorporando in extremis la tematica e isolandola in un titolo a parte. Troppe gelosie nazionali: le ferrovie degli Stati temevano fossero intaccati i loro privilegi, mentre le tante società di gestione autostradali aborrivano l’idea di mettere ordine a quel caos così redditizio. Emblematico è stato il problema, irrisolto per decenni, dell’incompatibilità delle strumentazioni e del materiale ferroviario tra nazioni, che rendeva una sfida ogni progetto di collegamenti internazionali rapidi.

Dunque, un processo di faticoso avanzamento nell’integrazione degli scambi, segnato anche da forti tensioni tra istituzioni comunitarie; e, al tempo stesso, da una pericolosa mancanza di prospettiva. La rete di interconnessioni europee nasce sul presupposto (inalterato nel tempo) di servire il mercato comune interno all’Unione: un obiettivo in apparenza ambizioso, ma che con l’andare degli anni si rivela sempre più in contrasto con l’evoluzione dell’economia globale e dei nuovi flussi commerciali. Ancora nel 2000 il quadro delineato dalla Strategia di Lisbona, secondo Costa, appare modellato sull’idea di un’Europa come polo autosufficiente e imprescindibile, membro insieme a Usa e Giappone della “triade” già regina dei commerci ma che sta iniziando a scricchiolare (l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2001, segna la presa d’atto dei nuovi equilibri che stanno prendendo forma). Per Costa, è quindi completamente mancata la consapevolezza che l’Europa si avviava a competere in un mercato globale, in cui all’asse Stati Uniti – Europa – Giappone si andava progressivamente sostituendo la duplice direttrice Asia – Europa e Asia – Stati Uniti: si deve a questa miopia, secondo l’ex ministro, il fatto che per lungo tempo ogni strategia europea sui trasporti si sia basata su “corridoi” stradali e ferroviari lasciando in secondo piano porti e aeroporti, nodi d’entrata e uscita che avrebbero dovuto costituire la priorità assoluta in una visione non autoreferenziale.

Di fronte all’impeto delle economie emergenti, le istituzioni europee si sono comportate concependole come nuovi soggetti che avrebbero interpretato un ruolo funzionale agli interessi europei, insufficiente per incidere sugli andamenti “macro”: è stato così per i Brics, i grandi Stati asiatici e americani più Russia e Sudafrica, ma anche, in una scala diversa, per l’Africa mediterranea, l’Est europeo e il Medio Oriente: tutte aree, queste, cui la “vecchia Europa” era incapace di guardare se non come a “bacini di espansione” del dinamismo dell’Unione. E mentre la Ue si impegna a delocalizzare e a perseverare in questa politica irrimediabilmente eurocentrica, proprio i “partner” la cui crescita doveva costituire una protesi dell’Unione assumono una dimensione politica ed economica completamente diversa, passando da comprimari a protagonisti e mettendo l’Europa all’angolo. Di qui la ripercussione di questo ritardo prospettico sul sistema infrastrutturale: la fame di collegamenti verso Est e verso Sud oggi è divenuta una carestia intollerabile. 

Quando passa a parlare dei porti, Costa ne ripercorre la storia di “cenerentole dei trasporti”: a lungo trascurati rispetto ai grandi disegni europei, solo di recente hanno riacquistato l’immagine e il ruolo di terminal strategici per il mercato globale. Ma anche in questo caso, l’Europa ha atteso troppo per pensare ai propri scali in chiave extracontinentale. Il risultato si traduce in casi come la recente acquisizione del controllo, da parte del colosso cinese della navigazione e logistica Cosco, di buona parte dell’attività commerciale del Pireo: la Cina ha ottenuto così la creazione di un avamposto fondamentale per la distribuzione delle proprie produzioni in Europa, scavalcando lentezze e nanismo tipici degli scali del continente. E se l’Europa pensa troppo in piccolo, per Costa in Italia la situazione è drammatica: sovrapposizione di istituzioni, burocrazia, obsolescenza delle strutture, ricettività limitata e incompatibile con le grandi navi richieste dal mercato (anche se a Venezia il tema, bisogna aggiungere, solleva gravi interrogativi di ordine ambientale). L’effetto è che all’eccellenza di singoli casi si contrappone un sistema non competitivo, che Costa propone di riformare con l’accorpamento degli scali in pochi centri multiportuali (per l’ex sindaco non più di cinque). Un riassetto sul quale la politica dovrà decidere in fretta: il decreto “Sblocca Italia”, da poco convertito in legge, prevede l’adozione del piano strategico nazionale della portualità e della logistica, che disegnerà il quadro degli scali riducendo le Autorità portuali e fissando gli interventi prioritari. Una fiammella che Costa raffredda, forse per scaramanzia, con un po’ di ironia sull’immobilismo italico, citando un caso di “impasse portuale” che risale alla Serenissima: una seduta del Consiglio dei Dieci del 1504, in cui si prefigura una trattativa con il sultano d’Egitto per il taglio del futuro canale di Suez, in modo da contrastare la rivalità portoghese sui commerci marittimi. La seduta si conclude con un nulla di fatto: ma oggi ai nostri porti, per sopravvivere, basteranno le glorie del passato?

Martino Periti

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