SOCIETÀ

Deliberiamo, ma a nostro modo!

Il 10 maggio 2018, nel numero 76 della Gazzetta Ufficiale, è stato pubblicato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri riguardante il “Regolamento recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico”.

Un Decreto assai interessante perché apre la possibilità che i cittadini italiani, attraverso un dibattito pubblico, possano esprimere la loro posizione, almeno per quanto riguarda progetti di fattibilità di opere pubbliche (non di tutte ma di una certa classe individuata nell’Allegato 1 del Decreto).

I punti principali

Cerchiamo di vederne i punti essenziali. All’art 2 si definisce il dibattito pubblico come “il processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi di cui all’Allegato 1”. Una definizione piuttosto vaga ma proprio per questo anche piuttosto plausibile.

La Commissione nazionale per il dibattito pubblico

Comunque, affinché tale dibattito sia possibile, si istituisce (art. 4) una “Commissione nazionale per il dibattito pubblico” presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Questa commissione, molto molto simile a quella francese (la Commission nationale du débat public), è composta da:

“a) due rappresentanti, di cui uno con funzioni di Presidente, designati dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti;

b) tre rappresentanti designati dal Presidente del Consiglio dei ministri;

c) cinque rappresentanti ciascuno designato, rispettivamente, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dal Ministro dello sviluppo economico, dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, dal Ministro della giustizia e dal Ministro della salute;

d) cinque rappresentanti nominati dalla Conferenza Unificata, di cui due in rappresentanza delle regioni, uno dall’Unione delle Province d’Italia e due dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani”.

A questi si possono aggiungere fino a “tre esperti competenti in materia di mediazione dei conflitti, progettazione partecipata e dibattito pubblico, che prendono parte ai lavori della Commissione senza diritto di voto”. I membri di tale Commissione hanno un incarico quinquennale rinnovabile (cioè possono stare in Commissione fino a 10 anni!) e non ricevono alcun gettone né alcun rimborso.

Che cosa fa la Commissione nazionale per il dibattito pubblico

Una volta istituita, essa:

“a) monitora il corretto svolgimento della procedura di dibattito pubblico e il rispetto della partecipazione del pubblico, nonché la necessaria informazione durante la procedura;

b) propone raccomandazioni di carattere generale o metodologico per il corretto svolgimento del dibattito pubblico;

c) garantisce che sia data idonea e tempestiva pubblicità ed informazione […],

d) organizza le attività di cui alle lettere a) e c) a livello territoriale, con il coinvolgimento attivo degli enti territoriali interessati dalla realizzazione dell’opera che segnalano alla Commissione eventuali criticità relative alle modalità operative e tecniche di svolgimento del dibattito pubblico e collaborano al fine di individuare le soluzioni migliori per le comunità locali;

e) presenta al Governo e alle Camere, entro il 30 giugno con cadenza biennale, una relazione sulle risultanze delle attività di monitoraggio svolte nel biennio precedente, evidenziando le criticità emerse nel corso delle procedure di dibattito svolte, suggerendo, altresì, soluzioni finalizzate ad eliminare eventuali squilibri nella partecipazione nonché a promuovere forme di contraddittorio quali momenti di interazione costruttiva.”

Da quanto sopra risulta che la Commissione lavora senza alcuna retribuzione o rimborso per organizzare, monitorare e riportare in sede legislativa gli esiti del dibattito pubblico. Subito si pone il problema di chi la comporrà e perché qualcuno dovrebbe accettare di entrarvi, vista anche la gratuità completa dell’operato dei suoi membri e il fatto poco convincente che in Italia vi sia ancora qualcuno che desideri lavorare esclusivamente per il pubblico bene e non per interessi personali o di fazione. Vi è, inoltre, un altro aspetto piuttosto interessante: ai membri non si richiede nessuna comprovata competenza specifica, tenendo però in considerazione che dovrebbero averla visto i punti a), b) e c) del mandato. Siamo sicuri che basti essere nominati da una qualche istituzione per essere competenti su una qualche faccenda? Considerata la qualità scientifica internazionale della maggior parte dei membri che si sono succeduti negli anni nei vari comitati nazionali, per esempio nel Comitato Nazionale di Bioetica, non può non venire qualche dubbio sulla qualità scientifica dei membri che potranno essere nominati nella Commissione che si occupa di deliberazione pubblica.

Si ricordi che uno dei punti fondamentali di un processo deliberativo è che coloro che deliberano (i cittadini) dovrebbero essere coordinati da persone con comprovata esperienza di deliberazione

Si ricordi che uno dei punti fondamentali di un processo deliberativo – almeno come è inteso in giro per il mondo e come appare essere quello istituito dal Decreto - è che coloro che deliberano (i cittadini) dovrebbero essere coordinati da persone con comprovata esperienza di deliberazione o che perlomeno sappiano qual è lo stato del dibattito a livello internazionale sulle varie tecniche e sulle metodologie deliberative. E – lo ripeto con scopi retorici - non mi pare che essere designato da un qualche ministro sia condizione necessaria o sufficiente per essere un esperto di qualche cosa. Certo, potrebbero esservi anche tre membri “esperti”. Ma questi non hanno diritto di voto. Ossia, gli unici che, essendo “esperti”, dovrebbero avere veramente voce in capitolo, sono gli unici che non hanno diritto a pesare nelle decisioni della Commissione. Così un designato da una delle varie istituzioni governative, indipendentemente dal suo sapere sulla questione, ha più peso di uno che potrebbe essere un reale esperto di deliberazione. Insomma, concesso che un comitato organizzatore vi deve essere per poter coordinare l’attività, vi dovrebbe pure essere – e dovrebbe essere esplicita nel Decreto – una richiesta circostanziata di competenza per chi ne dovrà far parte, altrimenti si rischia di cadere nel pressapochismo e questo – come appare intuitivo – è mortifero in ambito di decisione pubblica.

Il Coordinatore del dibattito pubblico

Pare, tuttavia, che il vero fulcro sia il Coordinatore del dibattito pubblico (art. 6). Questi “è individuato, su richiesta dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore, dal Ministero competente per materia tra i suoi dirigenti. Se l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore è un Ministero, il coordinatore è designato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri tra i dirigenti delle pubbliche amministrazioni estranei al Ministero interessato. In assenza di dirigenti pubblici in possesso dei requisiti di cui al comma 4, il coordinatore può essere individuato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore mediante procedura di cui al codice, configurandosi come appalto di servizi”. Qui, per essere sinceri, una certa competenza è richiesta: “Il coordinatore del dibattito pubblico è individuato tra soggetti di comprovata esperienza e competenza nella gestione di processi partecipativi, ovvero nella gestione ed esecuzione di attività di programmazione e pianificazione in materia infrastrutturale, urbanistica, territoriale e socio-economica”. Ma che cosa significa “comprovata esperienza e competenza”? Forse che si è già partecipato a processi partecipativi? A che livello: parrocchiale, nazionale, internazionale? Si richiede un curriculum adeguato? Come lo si valuta? Chi lo valuta?

E’ interessante anche ricordare chi può indire tale dibattito (art. 3): “l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore indice il dibattito pubblico su richiesta: a) della Presidenza del Consiglio dei ministri o dei Ministeri direttamente interessati alla realizzazione dell’opera; b) di un Consiglio regionale o di una Provincia o di una Città metropolitana o di un comune capoluogo di provincia territorialmente interessati dall’intervento; c) di uno o più consigli comunali o di unioni di comuni territorialmente interessati dall’intervento, se complessivamente rappresentativi di almeno 100.000 abitanti; d) di almeno 50.000 cittadini elettori nei territori in cui è previsto l’intervento; e) di almeno un terzo dei cittadini elettori per gli interventi che interessano le isole con non più di 100.000 abitanti e per il territorio di comuni di montagna.”. Insomma, non pare proprio che sia un dibattito richiesto dal basso, anche se si dà la possibilità che 50.000 cittadini (50.000!) lo possano sollecitare.

Lo svolgimento del dibattito pubblico 

Per chiudere, passiamo allo svolgimento del dibattito pubblico (art. 8). Questo “consiste in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, in particolare nei territori direttamente interessati, e nella raccolta di proposte e posizioni da parte di cittadini, associazioni, istituzioni”.

In realtà, di solito la deliberazione pubblica viene intesa come un processo nel quale un gruppo di cittadini è informato in modo adeguato 1) sulle questioni tecniche intorno alle quali deve decidere, 2) sull’impatto etico-socio-ambientale dell’implementazione reale della loro decisione, e magari anche 3) sulle tecniche del buon dibattere in pubblico. Ma questa informazione deve essere data da veri esperti della materia (siano essi scienziati naturali, ingegneri, scienziati sociali, esperti di logica e retorica, esperti di etica applicata). In questo modo, dopo aver appreso quanto basta delle questioni tecnico-scientifiche relative a ciò su cui si dovrebbe decidere, dell’impatto etico-socio-ambientale della decisione e della sua possibile implementazione, nonché sul modo di discutere, potrebbe iniziare – sotto la guida di un coordinatore esperto – la discussione vera e propria. Per dirla diversamente, questo Decreto – seppur da elogiare perché istituisce la necessità di una discussione pubblica ben fatta – dimentica che non vi può essere discussione ben fatta 1) se non si conosce bene ciò su cui si discute; 2) se non si conosce bene l’impatto etico-socio-ambientale dell’eventuale implementazione della decisione, 3) se non si conosce bene come discutere. Senza queste tre condizioni una discussione pubblica non può dar esiti positivi, se non per un caso fortuito.

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