SCIENZA E RICERCA

Una nuova molecola contro la depressione

Stimola la produzione di nuove cellule cerebrali tali da esercitare effetti antidepressivi che perdurano anche a distanza di due mesi dall'interruzione della terapia. Sarebbero queste le proprietà di NSI-189, il farmaco che un gruppo di ricercatori del Massachussetts General Hospital (MGH) di Boston, coordinati dall'italiano Maurizio Fava, sta sperimentando per curare la depressione. La prima parte dello studio è stata pubblicata online di recente nella rivista Molecular Psychiatry e a breve verrà avviata la seconda fase che dovrà verificare in via definitiva l'efficacia della molecola.

“In caso di depressione vi è una riduzione del volume dell'ippocampo, quella parte del nostro cervello legata alla memoria e alle emozioni – spiega il dottor Fava, laureatosi all'università di Padova e ora direttore esecutivo del Clinical Trials Network & Institute dell'MGH –. Tale riduzione si pensa sia legata a quella della neurogenesi, la capacità del cervello di generare neuroni, che infatti depressione, stress cronico e altri fattori contribuiscono a diminuire. I farmaci antidepressivi normalmente in uso agiscono sul sistema delle monoamine, ossia producono un'alterazione di neurotrasmettitori come la serotonina, la noradrenalina o la dopamina. Con questo nuovo farmaco, invece, per la prima volta viene sviluppata un'azione di promozione della neurogenesi”.

I primi test sono stati effettuati su 24 pazienti adulti con depressione grave o, in termini medici, depressione maggiore. Una parte è stata curata con il nuovo farmaco, l'altra con il placebo. Dopo quasi un mese di trattamento, è iniziata una fase di monitoraggio durata 56 giorni. “Lo studio ha evidenziato una migliore efficacia del farmaco rispetto al placebo e l'assenza di ricadute – svela l'autore principale della ricerca –. Generalmente quando si smette un farmaco antidepressivo la malattia tende a ritornare già dopo un mese. Lo si è visto in un alto numero di persone. Nel nostro caso non è accaduto e ciò è significativo se si tiene conto che non abbiamo alcun farmaco con un'azione persistente”.

Lo stesso Fava, però, tiene a mettere le mani avanti: “Si tratta di uno studio molto piccolo. I risultati vanno confermati. Il farmaco adesso è in fase 2, cioè sarà testato su circa 200 pazienti tra i 16 e i 65 anni, sempre con depressione maggiore, e lì cercheremo di replicare i nostri risultati per verificare la tollerabilità, vedere se ci sono effetti collaterali e differenze rispetto al genere”.

Per conoscere gli esiti dovremmo attendere la prima metà del 2017. Certo è che se la sua efficacia venisse confermata, il farmaco potrebbe rappresentare un'importante alternativa per i pazienti che non rispondono agli antidepressivi attualmente disponibili. Una novità non da poco se si considera – stando ai dati dell'Organizzazione mondiale della sanità – che tale malattia colpisce 350 milioni di persone. 

Essa può manifestarsi in tutte le fasce d'età, anche nei giovanissimi, bambini compresi. Il rischio per le donne è quasi doppio rispetto agli uomini, ma incidono, a titolo di esempio, anche alti livelli di stress e disturbi d'ansia o eventi vissuti in maniera traumatica, come possono essere il parto o un lutto. Non è esclusa la componente genetica: alcuni studi hanno dimostrato che la familiarità esiste e influirebbe sul 30% dei pazienti affetto da depressione. 

Tutto ciò si ripercuote negativamente sulla salute, la qualità della vita e la produttività. “Avere una depressione rende l'individuo più vulnerabile alle complicazioni delle malattie fisiche, quindi è una patologia che va presa seriamente – osserva ancora Fava –. Non dimentichiamo poi un'altra conseguenza della depressione che è molto tragica, quella del suicidio: ogni anno negli Stati Uniti sono circa 50mila le persone che si tolgono la vita”. 

Allo studio bostoniano, che un giorno forse non troppo lontano potrebbe aprire nuove speranze in termini terapeutici, guarda con interesse Angela Favaro, docente di psichiatria all’università di Padova: “È certamente presto per dire che si è trovato un nuovo farmaco adatto all'uso clinico, ma si tratta comunque di una sperimentazione importante che dà il via libera ad ulteriori ricerche”.

La strada da percorrere è ancora tanta perché molti dati devono essere dimostrati. “Nonostante il meccanismo d'azione sia estremamente interessante, lo studio si basa su pochissimi soggetti – rimarca la professoressa –. Quello che ci dice è che il farmaco è abbastanza sicuro, non ha dato problemi e sembra essere efficace. Ora è necessario  provarlo su un campione più ampio di maschi e femmine di età diverse ed esaminarne gli effetti a lungo termine”. E infatti, se l'esito di questo processo sarà positivo, seguirà una terza e ultima fase sperimentale di tipo confermativo che dovrebbe dare risultati nel 2018. 

Elena Trentin

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