SOCIETÀ

Il cambiamento climatico e i difensori dell'ambiente

Temperature globali che segnano sempre nuovi record. Una quantità senza precedenti di ghiacci artici che si sciolgono. Milioni di ettari di foreste e boschi che ogni anno finiscono letteralmente in fumo. Ondate di calore estive che mettono in ginocchio le città e colpiscono soprattutto le fasce più fragili della popolazione. La litania degli effetti del cambiamento climatico potrebbe allungarsi per diverse righe, mostrando quanto l’alterazione dell’ambiente naturale causata dall’attività umana stia presentando un conto sempre più salato. Lo sappiamo da tempo, almeno da quell’evento senza precedenti che è stato nel 1992 il primo Summit della Terra di Rio de Janeiro. Ma le azioni concrete per cercare di deviare la rotta sono state poche e contrastate.

Lo dimostrano, per esempio, le querelle geopolitiche attorno al protocollo di Kyoto, con le grandi potenze economiche che hanno atteso anni prima di firmarlo. In alcuni casi si è andati addirittura nella direzione opposta: gli Stati Uniti di Donald Trump che hanno aumentato le emissioni di gas serra, o il Brasile di Jair Bolsonaro che segna nuovi record nella distruzione della foresta amazzonica.

A contrastare azioni contrarie alla salvaguardia dell’ambiente in tutto il pianeta sono attivisti, veri e propri difensori ambientali, come li ha definiti l’ONU, che pagano spesso un prezzo altissimo per le loro battaglie. Solo lo scorso anno, 212 di loro sono stati uccisi per l’impegno profuso a favore di una causa ambientale: lo rivela il nuovo rapporto di Global Witness, un'organizzazione non governativa che da 25 anni osserva e registra quello che avviene nei conflitti ambientali. Si tratta di un record da quanto l’ONG raccoglie il dato, l’apice di una crescita che testimonia - accanto all'ampliamento della rete di segnalazioni - l’inasprimento dei conflitti ambientali in tutto il mondo.

La violenza nei confronti degli attivisti, segnala Global Witness, continua ad aumentare. Dal dicembre del 2015, mese in cui a Parigi si sono siglati gli accordi mondiali sul clima, gli attivisti che hanno perso la vita sono stati quattro alla settimana. E alle uccisioni vanno aggiunte anche tutte le altre forme di violenza impiegate negli scontri: minacce, violenze sessuali, aggressioni. Oltre all’uso, segnala sempre l’ONG, di arresti e cause legali come mezzi per impedire l’azione dei difensori ambientali da parte di diversi attori.

La suddivisione delle omicidi per paese mette in evidenza la concentrazione della pressione su alcune aree del mondo. Innanzitutto quella amazzonica, dove si sono registrate 34 uccisioni tra Brasile, Perù, Bolivia e Venezuela. Ma i paesi più colpiti sono Colombia (64 morti) e Filippine (43).

Punto di svolta

A spingere Global Witness a raccogliere in maniera sistematica le storie dei difensori dell’ambiente è stata la vicenda di Chut Wutty, un attivista cambogiano ucciso nel 2012. Il 26 aprile stava accompagnando due giornaliste del Cambodian Daily a Veal Bei Point, una zona forestale dove da anni si praticava l’abbattimento illegale degli alberi per fare posto a una piantagione di alberi della gomma con il coinvolgimento dell’esercito nazionale. Wutty è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, probabilmente sparati da un posto di blocco della polizia militare dalla quale stava cercando di scappare. E il conflitto per la salvaguardia di quell’angolo di foresta cambogiana non è ancora terminato, come mostra il documentario I Am Chut Wutty del 2015.

Accanto alla deforestazione illegale, le motivazioni per la nascita di un conflitto ambientale sono diversissime, ma tutte accomunate da diverse visioni di come si debba interpretare l’uso delle risorse naturali. Lo spiega l’analisi condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università Autonoma di Barcellona che hanno recentemente pubblicato uno studio sulla rivista Global Environmental Change. Stimolati dai report di Global Witness, i ricercatori erano insoddisfatti dell’assenza di un database generale che permettesse di mappare e studiare al meglio i conflitti ambientali.

Così, attingendo a diverse fonti (dalle testimonianze dirette ai rapporti ufficiali passando per i quotidiani locali) hanno messo insieme un vero e proprio atlante, l’Environmental Justice Atlas (EJA), che dal 2011 raccoglie puntualmente le storie di conflitto ambientale. Nel nuovo studio, pubblicato a inizio luglio, i ricercatori per la prima volta tentano un’analisi statistica del fenomeno a livello globale, per cercare di descriverlo al meglio sfruttando le tecniche ampiamente utilizzate dalle scienze sociali.

Dall’analisi dei 2743 casi documentati emerge che i settori più interessati dai conflitti ambientali sono quello minerario (21% dei casi), quello legato alle combustibili fossili (17%), allo sfruttamento di biomasse e utilizzo del suolo (15%), oltre alla gestione delle risorse idriche (14%).

A quest’ultimo settore è legata la storia di Berta Isabel Càceres Flores, attivista honduregna, leader del movimento che si opponeva alla costruzione della diga Agua Zarca sul Rio Gualcarque in deroga alle regolamentazioni internazionali. Fondatrice del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (COPINH), un’organizzazione per il sostegno dei diritti delle popolazioni indigene honduregne, e attivista LGBT, il 2 marzo del 2016 Càceres Flores è stata uccisa nella sua abitazione da un commando armato, in quella che sembra a tutti gli effetti un’esecuzione. Secondo le analisi dei ricercatori della Autonoma, nel 13% dei conflitti mondiali si arriva all’assassinio, ma con una frequenza diversa secondo il settore.

Una precisazione

Lo studio barcellonese, i cui numeri sono indipendenti ma coerenti con quelli di Global Witness, sottolinea che la raccolta dei dati non è omogenea. Ci sono diverse ragioni per cui l’Atlante che i ricercatori hanno messo in piedi, così come i dati raccolti da Global Witness, presentino dei punti ciechi. Nonostante il grande numero di casi documentati e accertati, l’Atlante non riesce a coprire tutti i conflitti ambientali mondiali. Alcune regioni, come per esempio alcune zone della Russia, della Mongolia, dell’Asia centrale e dell’Africa centrale sono scarsamente riportati e, di conseguenza, presenti all’interno del database.

Altri paesi, come per esempio quelli dell’America Latina sono rappresentati in maggior dettaglio, per via di una maggiore attenzione internazionale e una mobilitazione locale più efficace. Questo rende poco sensato confrontare i paesi tra di loro, ma permette di far emergere comunque alcune tendenze generali e di confrontare gruppi di paesi sulla base della loro fascia economica di appartenenza.

Da questi confronti emerge chiaramente che i conflitti ambientali non sono più frequenti nei paesi più poveri, ma sono equamente distribuiti in tutte le fasce economiche. A variare sono, invece, i settori maggiormente interessati.

Non cambia nemmeno distribuzione delle uccisioni: gli attivisti non vengono assassinati maggiormente in paesi dalle economie meno avanzate, ma l’omicidio è uno strumento utilizzato in maniera diffusa.

Lo dimostrano le storie dei due difensori romeni uccisi durante il 2019. In ottobre Liviu Pop è stato trovato morto con ferite d’arma da fuoco nelle foreste del Maramures, nel nord del paese, una delle aree forestali più vaste d’Europa e habitat di molte specie a rischio. La sua uccisione è arrivata solo un mese dopo il ritrovamento di un altro cadavere di un attivista, Răducu Gorcioaia, colpito a morte con un’ascia nei boschi della regione di Pascani. I due attivisti stavano cercando di fermare la deforestazione della Romania, che secondo il report 2019 di Global Witness, tra il 2001 e il 2019 ha registrato la scomparsa di 349 mila ettari di boschi. La motivazione principale, indicata anche da Greenpeace Romania, è la produzione illegale di legname, spesso con il coinvolgimento della criminalità organizzata, interessata a un mercato che vale 1 miliardo di euro l’anno.

Il delicato ruolo dei gruppi indigeni

Se l’analisi dell’Università Autonoma di Barcellona mostra una distribuzione omogenea in tutte le fasce economiche degli omicidi, lo stesso non si può dire confrontando i conflitti in cui sono coinvolti o meno i gruppi indigeni. Quando i gruppi appartenenti alle popolazioni indigene sono direttamente coinvolti nei conflitti, la pressione, in larga parte violenta, è nettamente più pronunciata, gli appartenenti ai gruppi indigeni sono “significativamente più suscettibili”, scrivono i ricercatori, a varie forme di violenza.

I dati evidenziano un’ulteriore pressione negativa nei confronti delle popolazioni locali per quanto riguarda i risultati del confronto ambientale tra le parti. Nel 21% dei 2743 casi analizzati, i conflitti hanno avuto come conseguenza il dislocamento delle persone: o perché “causato direttamente dai progetti guidati dalle aziende o dagli stati, o come conseguenza indiretta degli effetti negativi del cambiamento ambientale”. Un prolungamento con mezzi diversi di due altri fenomeni, spesso sovrapponibili ai temi della tutela ambientale, che da secoli affliggono le popolazioni indigene: il colonialismo e il razzismo. 

Servono trasparenza e responsabilità non solo laddove gli investimenti vengono fatti, ma anche nei paesi che investono. Environmental conflicts and defenders: A global overview

In conclusione al loro paper, i ricercatori della Autonoma stilano anche un breve elenco di cambiamenti che potrebbe limitare la violenza (fisica e non solo) nei confronti dei difensori dell’ambiente. C’è una quasi ovvia richiesta di maggiore trasparenza della gestione dei progetti di sfruttamento delle risorse naturali, sia da parte dei governi, sia da parte delle multinazionali. Ma c’è bisogno di trasparenza e responsabilità “non solo laddove gli investimenti vengono fatti, ma anche nei paesi che investono”. Come a dire che c’è bisogno di una maggiore responsabilizzazione internazionale, perché l’ambiente è uno solo e le conseguenze della sua compromissione sono tangibili per tutta l’umanità.

Dovrebbero, in questo senso, aiutare le direttive internazionali, che sulla carta già tutelano in parte questo tipo di situazioni. Notano però i ricercatori, che le politiche internazionali e le indicazioni sovranazionali rimangono spesso lettera morta e che “i conflitti ambientali si sviluppano all’interno di complessi contesti politici, socio-economici e culturali che non necessariamente rispondono a tali misure”. Vuoi perché accadono lontano dalla capacità di controllo e vigilanza internazionale, vuoi perché avvengono in contesti in cui hanno ruoli decisivi la criminalità organizzata e la corruzione politica e istituzionale. Il risultato è che purtroppo ci sarà ancora bisogno di difensori ambientali per lungo tempo.

Serve trasparenza e responsabilità non solo laddove gli investimenti vengono fatti, ma anche nei paesi che investono Environmental conflicts and defenders: A global overview

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