MONDO SALUTE

Covid-19, la malattia e le cure: parola a Giuseppe Ippolito

Quinto appuntamento del ciclo Aspettando Genova. L’Onda Covid: capire per reagire, una serie di interviste dedicate al tema del nuovo coronavirus e condotte dalla redazione de Il Bo Live in occasione della diciottesima edizione del Festival della Scienza di Genova che si terrà dal 22 ottobre al primo novembre.

Nel corso dei precedenti approfondimenti, concepiti come un percorso di avvicinamento al festival, abbiamo toccato vari aspetti legati all’infezione da Sars-CoV-2: abbiamo parlato di epidemiologia con Paolo Vineis, di immunità con Maria Rescigno, di come si gestisce una pandemia con Walter Ricciardi; e ancora, di Covid-19 e bambini con Paolo Rossi. Con Giuseppe Ippolito parliamo dei sintomi della malattia e delle sue terapie.

Ippolito è direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le Malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma e del Centro collaboratore dell’Organizzazione mondiale della Sanità per la cura, diagnosi, risposta e formazione nelle malattie altamente infettive. È stato membro di numerosi comitati e commissioni istituite dal ministero della Salute, tra cui la Commissione nazionale Aids; il Comitato per Ebola ed altre febbri emorragiche, il Comitato per la Sars, la Task force nazionale per l’influenza A/H1N1. Giuseppe Ippolito ha al suo attivo oltre 600 pubblicazioni scientifiche; negli anni le sue attività di ricerca si sono concentrate sulle infezioni ospedaliere e occupazionali, su epidemiologia e prevenzione di HIV, epatite B, epatite C, tubercolosi e infezioni emergenti e riemergenti nei Paesi in via di sviluppo e sulla biosicurezza.

Con Giuseppe Ippolito, in particolare, abbiamo discusso dei sintomi che manifesta un paziente affetto da Covid-19 e di come viene gestito a seconda della gravità del quadro clinico; ci siamo soffermati sui farmaci che vengono impiegati e sui trattamenti con il plasma iperimmune e gli anticorpi monoclonali, abbiamo ragionato dei vaccini attualmente in fase di sperimentazione e di quale sia la via per ottenere un prodotto sicuro. E, infine, non sono mancate alcune considerazioni sulla necessità di prepararsi alle epidemie, investendo in ricerca, pianificazione, applicazione, sperimentazione, validazione e simulazione. Di seguito ci soffermeremo su alcuni degli argomenti trattati dal direttore scientifico dello Spallanzani, rimandando alla videointervista per l’intervento integrale.

Guarda la videointervista integrale a Giuseppe Ippolito. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

La malattia e i sintomi

Giuseppe Ippolito osserva che la malattia decorre asintomatica nella maggioranza dei casi. “Nel corso di questi pochi mesi abbiamo cambiato più volte la presentazione della patologia. Inizialmente si parlava di grave polmonite, poi abbiamo scoperto che ci potevano essere polmoniti meno gravi, e ancora che si potevano sviluppare sintomi non noti normalmente o considerati solo per altre patologie come la perdita dell’olfatto, la perdita del gusto (anosmia, disgeusia). Poi abbiamo rilevato manifestazioni cutanee e forme complicate, oltre a quelle polmonari, fino all’interessamento neurologico”.

Approfondisce Ippolito: “La prima osservazione è che questo virus, esattamente come gli altri virus, una volta entrato nell’organismo fa danni diversi a seconda della modalità con cui si presenta e di chi è la persona che viene colpita. Ci sono persone, che hanno fattori di rischio o patologie preesistenti, che sono favorite nello sviluppare forme più gravi e poi c’è l’età che è sicuramente un marcatore dell’evoluzione più sfavorevole della malattia. Non a caso la letalità specifica di questa infezione è prevalentemente a carico dell’età anziana, a partire dai 65 anni. Non esiste dunque un paradigma di presentazione, si va dal semplice raffreddore, dai dolori muscolari, dai dolori alle ossa, fino ad arrivare all’insufficienza respiratoria grave che necessita il trattamento in terapia intensiva”. Sono conoscenze ancora limitate, puntualizza il direttore, che saranno approfondite nel tempo.

Si tratta di una patologia che per molti versi, dunque, assomiglia all’influenza. “Per chi ha sintomi respiratori, ma anche per chi ha polmonite grave i sintomi sono assolutamente indistinguibili. Non esiste un modo per distinguere le due infezioni. La raccomandazione di adottare la vaccinazione antinfluenzale è legata soprattutto all’intento di ridurre la quantità e la circolazione di virus influenzali. Sono convinto che grazie all’applicazione scrupolosa delle mascherine riusciremo a ridurre l’impatto dell’influenza esattamente come è successo già nei Paesi del sud del mondo”.

Le terapie

“Il paziente asintomatico sta a casa per 14 giorni – spiega Ippolito –. C’è un ampio dibattito su quanto debba durare la quarantena, ma attualmente le agenzie internazionali concordano nel ritenere che non esistano le condizioni per cambiare la durata della quarantena. Le persone con sintomi minimi, sintomi respiratori, possono essere curati con i sintomatici. Per i soggetti che hanno sintomi un po’ più marcati, invece, oggi la raccomandazione standard è di usare gli steroidi, ovverosia il cortisone. Infine, i soggetti che hanno difficoltà respiratorie possono avere bisogno di supporto respiratorio, sia invasivo che non invasivo, con caschi, cuffie o altro, fino al respiratore e in alcuni casi viene considerato anche l’impiego di un antivirale, il Remdesivir”. Ippolito precisa che si tratta dell’unico farmaco approvato sia negli Stati Uniti che in Europa.

“Gli altri medicinali sono andati progressivamente morendo. In Italia si è verificata una grande proliferazione di studi. L’Aifa ha centralizzato e condotto una valutazione estremamente rapida, che poi giungeva al Comitato etico dello Spallanzani per molti medicinali. Purtroppo, però, questi farmaci non hanno superato le prove necessarie”. Ippolito sottolinea che gli studi avviati nel mondo sono stati molti ed è mancato un coordinamento internazionale; non c’è stata standardizzazione iniziale e pazienti diversi hanno avuto accesso a trattamenti diversi. In questo senso, secondo il direttore, particolarmente significativo è invece uno studio di grandi dimensioni coordinato dall’università di Oxford (il Recovery Trial - Randomised Evaluation of COVID-19 Therapy), che ha confermato l’efficacia del cortisone, ma non di altri farmaci come gli antivirali per l’Aids o la clorochina. “Nonostante siano stati condotti piccoli studi, perlopiù osservazionali che hanno visto una differenza tra soggetti trattati e non trattati, se non possediamo studi solidi e forti, queste singole osservazioni anche se ben pubblicate non ci aiutano a definire uno standard di trattamento”.  

Plasma iperimmune e anticorpi monoclonali

Per la cura di pazienti con infezione da Sar-CoV-2 si è molto parlato, in questi mesi, della possibilità di ricorrere al plasma iperimmune, cioè di utilizzare il plasma (la parte liquida del sangue) di soggetti guariti dalla malattia, per fornire ai malati gli anticorpi. “Il plasma iperimmune è un altro dei trattamenti ipotizzati per molte malattie infettive – sottolinea Ippolito –, che tuttavia non ha superato le prove per dimostrare una netta superiorità senza abbattere i rischi. È stata sicuramente una buona iniziativa che in un momento di grande crisi ha fornito ai clinici un importante strumento per tentare una terapia”. Ma servono ulteriori studi.

Diversa, invece, la situazione degli anticorpi monoclonali, dotati di alta specificità verso un determinato antigene e costruiti con tecniche di ingegneria genetica. L’obiettivo è sviluppare un farmaco specifico, attraverso l’impiego di anticorpi neutralizzanti selezionati, riproducibile artificialmente e dunque senza ricorrere al sangue di donatori, che possa essere impiegato sia per la profilassi che a scopo terapeutico. Sono in fase iniziale di sperimentazione. “Questi sono la grande scommessa. Gli anticorpi monoclonali hanno dimostrato in altre patologie di essere sicuri ed efficaci: basta pensare che le piattaforme per la produzione di anticorpi monoclonali sono utilizzate, per esempio, in oncologia con ottimi risultati, e sono stati sdoganati per le malattie infettive grazie alla ricerca su Ebola. Esistono cinque trial aperti al mondo, negli Stati uniti, in Olanda, uno prenderà avvio a breve in Francia e un altro in Italia. Speriamo ci diano buoni risultati nel minor tempo possibile, tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo dovremmo iniziare ad avere qualche dato in più”.

Lo sviluppo di vaccini

I candidati vaccinali a cui stanno lavorando gruppi di ricerca in tutto il mondo sono ad oggi più di 300, di cui oltre una trentina in fase clinica sull’uomo. “Sono numeri consistenti – sottolinea Ippolito –, non si era mai visto uno sforzo di questo tipo”. Per la prima volta si è arrivati a un vaccino a base di acido nucleico virale (il vaccino di Moderna), che è il più innovativo. All’Istituto Spallanzani è iniziata la sperimentazione sull’uomo di un vaccino prodotto in collaborazione con la società biotecnologica ReiThera (GRAd-COV2), che utilizza la tecnologia del “vettore adenovirale non-replicativo”, non in grado cioè di produrre infezione nell’uomo. “Siamo in fase 1, bisognerà aspettare la metà di novembre per avere i primi dati, nel frattempo la società sta sviluppando i modelli per le fasi due e tre”.

Ippolito sottolinea l’importanza di rispettare tutte le fasi di sviluppo di un vaccino: “Non dobbiamo assolutamente perdere di vista la sicurezza, prima di tutto.  E ritengo che i ricercatori in tutto il mondo stiano applicando in maniera scrupolosa queste misure. Le preoccupazioni che sono state espresse sia per il vaccino russo che per quello cinese hanno fatto aumentare ulteriormente l’attenzione”. E osserva: “Si deve fare in modo che tali misure vengano rispettate in tutti i Paesi. Le fughe in avanti sono pericolose, perché possedere un vaccino in qualche milione di dosi non significa aver risolto il problema. Bisogna produrre il vaccino, distribuirlo e monitorare che cosa accade nel momento in cui viene somministrato”.  

Non si deve farne una competizione, secondo il direttore scientifico dello Spallanzani. “Abbiamo bisogno di uno o più vaccini, di capire su quali soggetti funzionano. Una volta che li abbiamo sviluppati dobbiamo comprendere come poterli gestire, qual è la popolazione bersaglio sui cui concentrarsi. Se non facciamo questo, non faremo un buon servizio al nostro Paese e alla comunità”.  Basti pensare, del resto, che non tutte le malattie infettive hanno la disponibilità di un vaccino (ne è esempio l’Aids, su cui si lavora da circa 35 anni) e che la Food and Drug Administration ha annunciato di dare la propria approvazione solo a vaccini con un’efficacia su almeno il 50% delle persone su cui sono stati testati.  

Per pensare di poter avere un prodotto in commercio, sottolinea il direttore dello Spallanzani, si dovrà attendere la fine del 2021: “Noi avremo un vaccino che sarà disponibile per uso in emergenza, le prime dosi già alla fine di quest’anno; la primavera dell’anno prossimo invece potremo contare su una disponibilità più ampia. Il vaccino poi, come dicevo prima, va prodotto, distribuito e somministrato: tutti aspetti che necessitano di essere adeguatamente valutati, prima di prendere una decisione finale”.  

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