SOCIETÀ

Cina, il drago "accerchiato"

Davvero il gigante asiatico rischia di essere accerchiato? La Cina, con la sua politica sempre più aggressiva, espansiva, sempre più muscolare, viene ormai percepita come un pericolo dagli Stati “competitor”, non soltanto per vicinanza geografica: dall’India al Giappone, dalla Thailandia all’Australia, fino ad arrivare agli Stati Uniti: un fronte anti-cinese (la cui ossatura è nelle nazioni che aderiscono al Quad,  Quadrilateral Security Dialogue) che  sta trovando, soprattutto in questo periodo di pandemia, punti di contatto che mai sono stati così saldi. Una “guerra fredda”, se così vogliamo definirla (ma il termine è improprio), che per il momento si combatte soprattutto sul fronte commerciale e tecnologico. L’obiettivo principale degli “alleati” è la diversificazione delle catene di approvvigionamento: vale a dire il tentativo di creare delle alternative (in casa o sostenute da accordi bilaterali) per interrompere la dipendenza dalle esportazioni cinesi. Il gigante asiatico ovviamente ha reagito da par suo: con i muscoli, con l’imposizione di dazi (soprattutto con l’Australia, lo vedremo più avanti) che sono andati a colpire duramente le esportazioni di quei Paesi. E’ chiaro che se il futuro sarà nel “fai da te” (o tentare di fare a meno di) i più grandi partono avvantaggiati: Cina e Stati Uniti su tutti. «Non chiuderemo la porta al mondo nella corsa all'innovazione, ma cercheremo l’autosufficienza tecnologica perché non possiamo affidarci all’estero per le tecnologie chiave», ha già dichiarato con chiarezza il ministro della Scienza e della Tecnologia cinese, Wang Zhigang. Gli Stati Uniti, che con Trump hanno eretto muri, sono tornati ad essere un’incognita, nell’attesa di capire cosa accadrà nel momento in cui Joe Biden entrerà alla Casa Bianca (con la Wto che ha recentemente bocciato la “trade-war” di Trump, l’imposizione di dazi americani alla Cina dal 2018, definendoli contrari al diritto internazionale). Ma la partita vera è tra loro: le altre nazioni possono soltanto scegliersi l’alleato giusto. 

Il ruolo dell’Australia

La questione è tuttavia molto articolata e per tentare di comprenderla nel suo insieme va divisa per punti, per nazioni, per protagonisti. Partiamo con uno dei capitoli più complessi: l’Australia, per la quale la Cina è il principale partner commerciale (circa un quarto delle sue importazioni viene dalla Cina e un terzo delle sue esportazioni finisce lì). Il valore annuale delle transazioni tra i due paesi supera i 170 miliardi di dollari. Ma i rapporti si stanno logorando da alcuni anni. La prima, profonda incrinatura risale al 2017, quando i servizi segreti australiani (Asio) denunciarono tentativi d’intromissione cinese nella politica interna, denunciando anche politici australiani che avevano ricevuto donazioni da uomini d’affari cinesi. Il primo ministro Malcolm Turnbull propose in risposta una serie di leggi per prevenire e contrastare le interferenze straniere nel paese (tra i nuovi reati penalmente punibili anche lo spionaggio industriale) che il Parlamento approvò. L’anno successivo il “grande smacco”: l’Australia è la prima nazione a vietare pubblicamente ai cinesi di Huawei di avere parte nella realizzazione della propria rete 5G. Una scelta giustificata con “motivi di sicurezza nazionale”. Nel 2019 varie schermaglie. Dopo una serie di manifestazioni in diverse città australiane a sostegno della politica repressiva di Pechino a Hong Kong, alcuni ministri australiani hanno richiamato le università a vigilare sull’influenza cinese. Il sospetto è che il governo cinese abbia finanziato per anni viaggi di studio all’estero (non soltanto in Australia) proprio per insediare gruppi di giovani, come base d’addestramento per la loro occidentalizzazione, intendendo “occidente” come un’entità non soltanto geografica, ma ideologica (secondo quanto teorizzato dall’economista e filosofo francese Serge Latouche). Successivamente il direttore dell’Asio ha sostenuto che tutti i politici australiani sono diventati “bersagli attraenti” per le spie straniere che cercano di rubare segreti e manipolare, o comunque condizionare, il processo decisionale.

L’inchiesta sul Covid-19 e la ritorsione dei dazi

Ma è con l’esplodere della pandemia che il rapporto tra i due paesi si è definitivamente incrinato. Lo scorso aprile l’Australia ha chiesto formalmente all’Oms l’apertura di un’inchiesta internazionale sulle origini del coronavirus, all’indomani delle notizie che confermavano la responsabilità delle autorità cinesi nel tacere, inizialmente, l’esistenza del virus. Richiesta sostenuta anche da Stati Uniti (frequenti i contatti telefonici tra il premier australiano e Donald Trump), Francia e Germania. Il premier australiano, prendendo posizione sulle ingerenze cinesi a Hong Kong, ha inoltre sospeso l’accordo di estradizione con l’ex colonia britannica, prorogando per 5 anni i visti per i circa 10.000 hongkonghesi che vivono in Australia (studenti, lavoratori temporanei), con l’offerta, per chi vorrà, di una corsia preferenziale per ottenere la cittadinanza australiana. La Cina ha risposto con durezza, andando a colpire laddove può far più male: sul commercio. Ha immediatamente alzato i dazi (all’80,5%) sulle importazioni di orzo (la Cina acquista circa il 70% della produzione australiana). Ha vietato le importazioni di carne bovina e, successivamente, di zucchero, vino, legname, carbone, cotone, perfino le pregiate aragoste rosse. Una muraglia innalzata per paralizzare, e mettere in ginocchio, l’economia australiana: per “punire” il tradimento. Da lì una serie di ripicche. Dopo un blitz della polizia di Sidneynelle abitazioni di quattro giornalisti di Pechino, sospettati di attività di spionaggio, le autorità cinesi hanno “consigliato” ai loro connazionali di non visitare e di non proseguire gli studi in Australia, a causa del “crescente razzismo e discriminazione nei confronti delle persone di etnia cinese e asiatica”. Intanto Cheng Lei, cittadina australiana e giornalista, conduttrice dell'emittente cinese in lingua inglese CGTN, veniva arrestata a Pechino perché “sospettata di attività criminali che mettono a rischio la sicurezza nazionale”, come ha riferito il portavoce del ministero degli Esteri cinese. Altri due corrispondenti si sono rifugiati nelle missioni diplomatiche australiane di Shangai e di Pechino.

Quindi scontro totale, con buona pace della teoria del “doppio binario” che aveva caratterizzato i rapporti tra Cina e Australia negli ultimi decenni: mai mescolare economia e politica. Ma gli scontri, alla lunga, sono difficili da sopportare, soprattutto quando a essere travolte sono le economie. Perché se l’Australia dipende commercialmente dalla Cina (e perciò sta cercando delle alternative), è altrettanto vero che il Dragone ha “fame” di quelle materie prime. Accade così che pochi giorni fa, il 15 novembre, entrambe le nazioni abbiano aderito al Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un mega accordo commerciale di libero scambio nella regione dell’Asia Pacifica tra 10 paesi del sud-est asiatico (dall’Indonesia alla Thailandia, dalle Filippine al Vietnam), oltre a Cina, Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda. In quell’elenco ci sono gran parte dei paesi che punterebbero, al momento in teoria, a “isolare” commercialmente il colosso cinese. «Il governo australiano utilizzerà l’accordo commerciale per riportare la Cina all’interno dei negoziati multilaterali e porre fine alle controversie commerciali che hanno colpito una dozzina di industrie australiane e hanno minacciato 20 miliardi di dollari di esportazioni», è stato il commento di Eryk Bagshaw sul Sidney Morning Herald. «La palla ora è nel campo della Cina per tornare al tavolo del dialogo», ha dichiarato il ministro del Commercio australiano, Simon Birmingham.

India: l’Himalaya conteso e la minaccia nucleare

La Cina ha anche un fronte di alta tensione con l’India. Ma qui il problema si sposta sul piano militare, pur senza abbandonare quello commerciale (il valore delle transazioni reciproche, nel 2019, ha raggiunto gli 80 miliardi di dollari). Lo scorso 15 giugno c’è stato uno scontro tra gli eserciti dei due paesi lungo il confine (piuttosto vago, tracciato nel 1914 dall’Inghilterra coloniale su mappe assai approssimative) sull’Himalaya, nella valle di Galwan, alla frontiera tra il Ladakh indiano e l’Aksai Chin cinese. Una battaglia anomala: a mani nude, con pietre e bastoni chiodati (qui un video). Conclusa con decine di soldati morti, da entrambe le parti. E con l’occupazione da parte della Cina di circa 300 kmq di territorio indiano. La ritorsione del primo ministro Narendra Mori è arrivata sotto forma di vendetta commercialecon il blocco delle commesse cinesi nel settore dell’elettronica, a favore di Germania, Giappone e Taiwan. Anche a soddisfare le numerose proteste di piazza, con le immagini di Xi Jinping date alle fiamme. «Se il nostro popolo vuole boicottare i prodotti cinesi, rispettiamo i loro sentimenti», ha dichiarato Ram Madjav, segretario generale del partito di governo Bjp (Bharatiya Janata Party). Il ministero indiano dell’Elettronica e dell’informatica ha inoltre vietato l’uso e bloccato 59 app di origine cinese tra le quali TikTok e WeChat. Al di là delle schermaglie, la questione militare è assai delicata: due potenze militari nucleari (ma l’arsenale della Cina, e la tecnologia di cui dispone, è assai superiore), confinanti. Non a caso, appena scoppiata la battaglia dell’Himalaya, le diplomazie internazionali sono immediatamente intervenute per favorire una de-escalation della tensione. Ma gli scontri al confine conteso continuano. E inquietano le modalità: il quotidiano britannico The Times ha pubblicato pochi giorni fa un documento, basato sulle dichiarazioni di Jin Canrong, professore di relazioni internazionali alla Renmin University of China di Pechino, secondo il quale lo scorso agosto le truppe cinesi avrebbero utilizzato armi “a microonde” per respingere le truppe indiane senza far ricorso ad armi convenzionali. «Gli attacchi a microonde – scrive il settimanale The Week - utilizzano raggi di radiazione elettromagnetica ad alta frequenza per riscaldare l'acqua nella pelle di un bersaglio umano, provocando dolore e disagio»: come vomito e stordimento. L’India ha bollato il rapporto come “infondato e falso”. 

Il Risiko degli schieramenti

Così, tra scontri e ripicche, le parti in campo appaiono più delineate. Da un lato la Cina, i suoi tentacoli e le sue irrefrenabili mire espansionistiche (in Asia è solidissima l’alleanza con il Pakistan, che peraltro contende all’India da decenni la regione del Kashmir). Dall’altro gli Stati Uniti, pur nell’enorme incertezza generata dai quattro anni di presidenza Trump, che ha di molto diminuito il “peso” e la presenza americana nell’area del Sud-Est asiatico. Perché (commercialmente, militarmente) se una nazione tenta di chiudere fuori dalla porta, o quantomeno di arginare, il colosso cinese non ha altra via di sopravvivenza che schierarsi al fianco degli Stati Uniti. Perciò il Quad: un’alleanza (anche qui, militare e commerciale) tra paesi “con idee simili” (Stati Uniti, Australia, India e Giappone) preoccupati per la crescente irruenza e per l’unilateralismo cinese. Uno degli obiettivi sarà creare una “rete tecnologica” tra gli stati aderenti: sicurezza informatica e sistemi di protezione delle reti 5GAustralia e Giappone hanno inoltre appena firmato un “patto di difesa” (RAA, Reciprocal Access Agreement) che in futuro potrebbe essere esteso anche all’India. La marina australiana, inoltre, ha partecipato le scorse settimane alle esercitazioni militari del Malabar, nell’Oceano Indiano, assieme  alle navi da guerra indiane, giapponesi e americane: un messaggio per Pechino. Una convergenza strategica a tutto campo tra i quattro paesi che potrebbe portare a futuri accordi bilaterali anche con altri stati del Sud-Est asiatico: Thailandia, Filippine, Malesia, Birmania. 

Da Pechino filtrano preoccupazioni per quella che è stata definita come una “Nato indo-pacifica contro la Cina”. Pesa inoltre l’incognita Biden, anche se qualche intenzione comincia a trapelare, con il presidente eletto che ha assicurato al primo ministro giapponese che Washington avrebbe aiutato a difendere un gruppo di isolotti amministrati dal Giappone nel Mar Cinese orientale, in base a un trattato bilaterale di sicurezza. Una piccola delusione per Xi Jinping, che sperava da subito in un atteggiamento più morbido dal successore di Trump (al quale è legato comunque da un rapporto di lunga data). Ma non sono certo scaramucce del genere a spaventare la Cina, che procede comunque spedita nella sua politica aggressiva di espansione unilaterale (utilizzando qualsiasi mezzo: militare, tecnologico, spionistico), sulla traccia della Belt and Road Initiative, il colossale progetto di sviluppo (ribattezzato Nuova via della Seta) varato nel 2013 per finanziare investimenti infrastrutturali (e futura gestione di snodi strategici) in ogni angolo del pianeta, dall’Africa all’Europa (Italia compresa), dalla Russia all’Asia, al Medio Oriente: una sorta di “colonizzazione” del commercio mondiale

Il che ci consente di tornare alla domanda iniziale: la Cina rischia davvero di essere accerchiata? Commercialmente isolata? La risposta, con tutte le indispensabili sfumature, è no. Pechino ha una sola voce, che piaccia o meno, e una sola direzione che prevede espansione, conquista e propaganda. Con mezzi leciti e illeciti. Un rullo compressore che difficilmente potrà essere bloccato. Ma in qualche modo arginato sì. O anche soltanto rallentato, dipende molto dalle congiunture, e dalla necessità di evitare pericolose dipendenze. Da qui il tentativo di creare delle alternative alle catene di approvvigionamento. Per accerchiare un gigante ci vuole molta forza e un’enorme coalizione. Ma anche un accurato calcolo del rischio: spesso le convivenze si reggono sul delicato equilibrio della minaccia. 

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