SCIENZA E RICERCA

Sull'importanza dell'epidemiologia (e qualche esempio)

Si dice che la pandemia ha trasformato molti italiani in epidemiologi dilettanti. Questi nostri connazionali sono attratti dall’epidemiologia perché è la disciplina che descrive e, entro certi limiti, prevede la diffusione dei virus. Ma ci sono altre ragioni per interessarsi di epidemiologia, anche per un pubblico non esperto. In questo articolo parleremo di una nozione epidemiologica centrale, quella di rischio di salute. In particolare, distingueremo due tipi diversi di rischi e spiegheremo perché la differenza è importante. Nel farlo, ci appoggeremo anche all’epistemologia, la disciplina filosofica che si occupa della conoscenza.

l’epidemiologia è lo studio medico di come le malattie e altri stati di salute, e le cose che li determinano, si distribuiscono nella popolazione

Grossomodo, l’epidemiologia è lo studio medico di come le malattie e altri stati di salute, e le cose che li determinano, si distribuiscono nella popolazione. Il metodo è quello del confronto tra gruppi, fatto per stabilire connessioni tra “esposizioni” ed “esiti”. L’esposizione è la presenza di un fattore che modifica la probabilità di una certa condizione di salute. Il caso centrale è l’esposizione a un fattore di rischio per una certa malattia. (Si parla anche di esposizione a farmaci, e in quel caso si è più interessati alla diminuzione del rischio di malattia.) I fumatori sono esposti al fumo di sigaretta, che è un fattore di rischio per molte gravi malattie respiratorie e circolatorie. Nel caso del Covid-19, l’esposizione tipica è il contatto con una persona infetta. Gli esiti possono essere molti ma i principali sono due: o la persona esposta contrae la malattia, oppure non lo fa.

Un fattore di rischio per una certa malattia è una condizione che aumenta la probabilità di contrarre la malattia (ma non ogni condizione che aumenta la probabilità di contrarre una malattia è un fattore di rischio). Sia per individuare i fattori di rischio che per calcolare l’aumento del rischio, gli epidemiologi fanno uso di strumenti matematici. Tuttavia, la scelta fra metodi alternativi non è solo una faccenda matematica, perché i diversi metodi sono più o meno adeguati in circostanze diverse e in relazione a scopi diversi.

Quando si dice che un fattore di rischio aumenta la probabilità di malattia si usa un’espressione, “aumentare”, il cui significato può essere precisato in modi matematici diversi. Due modi possibili, non gli unici, sono dati dalla differenza tra il rischio negli esposti e il rischio nei non esposti e dal rapporto tra questi due rischi. Illustriamo di cosa si tratta.

Nel primo modo si rappresenta un aumento di rischio, che può essere detto “assoluto”, mediante una percentuale che va semplicemente sommata alla percentuale di rischio tra i non esposti (se il rischio negli esposti è maggiore del rischio nei non esposti). Se il rischio tra i non esposti è del 10% e quello tra gli esposti è del 15%, l’aumento di rischio assoluto è del 5%. Nel secondo modo si rappresenta mediante una frazione quanto più grande è un rischio rispetto all’altro (rischio relativo). Nell’esempio fatto il rischio relativo tra gli esposti rispetto ai non esposti è 15/10, cioè 1,5.

Poniamo ad esempio che la vostra probabilità di contrarre una certa malattia (non grave) in un certo arco di tempo sia dello 0,1% nel caso che non siate esposti ad un fattore di rischio tipico per quella malattia. In seguito, vi comunicano che invece siete esposti a quel fattore di rischio. Vi si può dire, inoltre, che quel fattore di rischio aumenta di un ulteriore 0,1% quella probabilità oppure che la probabilità della malattia dovuta al fattore di rischio è 2 volte più alta. Certamente dire che è 2 volte più alta può impressionare, ma la non gravità della malattia potrebbe suggerire di non preoccuparsene troppo.

È meglio concentrarsi sulla misura dell’aumento addizionale di rischio assoluto o sulla misura del rischio relativo? Dipende dalle circostanze e dagli scopi che si perseguono.

Nella comunicazione a un pubblico non esperto è fondamentale evitare oscurità e ambiguità

Di norma, questo significa che è preferibile comunicare l’incremento di rischio assoluto, specialmente se non c’è tempo per i dettagli. Purtroppo, però, molti risultati epidemiologici sono spesso riportati in termini di rischio relativo, in parte per semplice incuria e in parte perché i rischi relativi hanno spesso un maggiore impatto dal punto di vista della comunicazione.

Nel 1995, un organismo di controllo britannico emanò l’avviso che le pillole contraccettive di terza generazione, rispetto alle “vecchie” pillole, raddoppiavano la possibilità di trombosi, una condizione potenzialmente molto grave. L’avviso fu rilanciato con grande fanfara dalla stampa: le nuove pillole aumentavano del 100% il rischio di trombosi. Spaventate dalla notizia, molte donne smisero di assumere la pillola, un fenomeno oggi noto come pill scare (paura da pillola). La pill scare condusse a molte gravidanze indesiderate (l’anno successivo ci furono 800 gravidanze in più per la sola fascia sotto i 16 anni) e, secondo le stime, a circa 13.000 aborti evitabili.

Ma qual era davvero il rischio di trombosi per quelle donne? Secondo gli studi su cui si basava la notizia, c’era un caso di trombosi ogni 14.000 fra le donne che assumevano la “vecchia” pillola contro un caso su 7.000 per la “nuova” pillola. In altri termini, con la “nuova” pillola, il rischio di trombosi passava da 1 su 14.000 (0,007%) a 1 su 7.000 (0,014%). La nuova pillola era due volte più rischiosa, quindi con un aumento del 100%, proprio come riportato dai giornali. Ma il rischio aggiuntivo era soltanto dello 0,007%. Se la comunicazione si fosse concentrata su questo secondo dato e non sul primo, non ci sarebbe stata nessuna pill scare.

La vicenda si rivelò avere anche un risvolto paradossale. Poiché il rischio di trombosi è più alto in gravidanza e nel post partum, per molte donne la pill scare di fatto aumentò la probabilità di trombosi – senza contare i costi psicologici, sociali e sanitari delle gravidanze indesiderate e degli aborti. Un autentico disastro.

Abbiamo detto che, di solito, nella comunicazione a un’audience non esperta (inclusa la comunicazione tra medico e paziente) è preferibile concentrarsi sugli incrementi addizionali di rischio. Questo vale in molte altre circostanze. Ma esistono anche casi in cui i rischi relativi sono più utili, come quando, ad esempio, si descrive una tendenza di crescita. In un certo senso, questa è una delle tante lezioni che la pandemia ha impartito a tutti noi.

Con Covid-19, se le autorità sanitarie cinesi si fossero concentrate sui soli aumenti di rischio assoluto avrebbero probabilmente sottovalutato il problema

Il Covid-19, all’inizio, era una malattia molto rara. Anche ipotizzando che il numero dei contagi raddoppiasse tutte le settimane, l’aumento del rischio assoluto sulla popolazione di Wuhan (circa 10 milioni di abitanti) era comunque minimo. Data quella popolazione, un passaggio da 50 a 100 contagi corrisponde a un aumento del rischio assoluto di 0,000005%. Se le autorità sanitarie cinesi si fossero concentrate sui soli aumenti di rischio assoluto avrebbero probabilmente sottovalutato il problema. Per comprendere l’aspetto dinamico delle malattie, è indispensabile monitorare il rischio relativo. Naturalmente, i rischi relativi vanno considerati all’interno di un quadro più ampio che comprende il numero dei malati, la gravità e i costi umani, sociali ed economici della malattia, i costi relativi dei diversi interventi e molte altre cose. Gestire la salute pubblica non è facile.

È naturale pensare che un intervento efficace di politica sanitaria debba riguardare le cause di problemi che si vogliono eliminare o almeno ridurre. La nozione di causa va però maneggiata con cura, per ragioni ben note all’epistemologia contemporanea. Vediamone qualcuna. 

In primo luogo, non è sempre semplice capire quali fattori hanno un ruolo causale. Non è sufficiente menzionare i fattori che rendono più (o meno) probabile un esito, perché alcuni di essi non hanno un ruolo causale. Inoltre, salvo in casi accuratamente specificati: 

(1) il ruolo causale non è attribuibile in esclusiva ad un singolo fattore e (2) quando si elimina un fattore il suo ruolo causale viene in parte sostituito dal ruolo causale di qualche altro fattore. Ignorare (1) e (2) senza adeguate giustificazioni significa incorrere in quelle che, nel suo libro Philosophy of Epidemiology (Palgrave Macmillan UK, 2013), Alex Broadbent chiama rispettivamente “fallacia della causa esclusiva” e “fallacia controfattuale”. Andiamo a scoprire cosa sono.

Poniamo che 11 alpinisti su 100 soffrano di ernia al disco contro 10 non alpinisti su 100. Fra gli alpinisti, c’è circa un caso in eccesso di ernia ogni 10. Questi dati suggeriscono che fare alpinismo aumenti il rischio di ernia. Ma è un errore di ragionamento (la fallacia della causa esclusiva, appunto) concluderne che l’alpinismo causi l’ernia esattamente in quel caso in eccesso, ossia causi l’ernia in un alpinista su 11. Questa conclusione implicherebbe che (i) negli altri 10 alpinisti, la pratica dell’alpinismo contribuisce in modo trascurabile a causare l’ernia, e (ii) nel caso in eccesso, la pratica dell’alpinismo spiega completamente l’ernia, senza nessun concorso significativo di altri fattori. Entrambe le idee (i) e (ii) sono implausibili. In generale, commettere la fallacia della causa esclusiva è pensare che un’esposizione causi esattamente la frazione di casi in eccesso che si manifesta fra gli esposti rispetto ai non esposti.

La fallacia controfattuale è l'assunzione che, se ipoteticamente un’esposizione venisse interamente rimossa, allora il livello di rischio assoluto della popolazione esposta diventerebbe uguale a quello della popolazione non esposta. Tornando all’esempio degli alpinisti, l’idea è che, se il gruppo degli alpinisti smettesse di praticare l’alpinismo, allora il loro rischio di contrarre l’ernia si ridurrebbe dall’11% al 10%. Quest’idea è probabilmente sbagliata: la riduzione sarebbe minore perché (anche ignorando i danni già causati dall’esposizione) l’esposizione può essere parzialmente rimpiazzata da altre cause dell'esito. Ad esempio, alcuni alpinisti passeranno ad attività impegnative per la schiena. Per fare un altro esempio, pensiamo al caso della pill scare che abbiamo visto poco fa: nelle donne che hanno smesso di prendere la pillola, la diminuzione del rischio di trombosi legato alla pillola è stato parzialmente compensato da un aumento del rischio di trombosi legato alla gestazione. 

Quindi, in generale, non si può dire né che l'esposizione causa l'esito esattamente la frazione di casi in eccesso (fallacia della causa esclusiva), né che l’eliminazione dell'esposizione annullerebbe la differenza di effetto (fallacia controfattuale).

Sia la molteplicità dei modi nei quali si può rappresentare l’aumento di rischio che le fallacie nelle quali si può incorrere quando si pensa al ruolo di un fattore di rischio e all’effetto di intervenire su di esso mostrano che ci sono nell’epidemiologia anche aspetti concettuali e interpretativi che possono essere oggetto di approfondimento epistemologico. In particolare, abbiamo notato alcune difficoltà nell’idea di senso comune che un fattore di rischio sia la causa di un certo stato di salute. 

Un’adeguata comprensione e rappresentazione del rischio non è solo un’esigenza intellettuale, ma può fare una grande differenza, tanto nelle scelte di salute dei singoli quanto nelle decisioni di politica sanitaria.

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