SOCIETÀ

Olio di palma, tra sostenibilità e interessi economici. Una prospettiva giuridica europea

Nel 2015 Ségolène Royal, allora Ministro dell’Ecologia della Repubblica francese, sollevava il cosiddetto “NutellaGate” affermando, in una trasmissione televisiva, che per contribuire a salvaguardare l’ambiente, fermando la deforestazione, si dovesse smettere di mangiare Nutella. La famosa crema spalmabile, infatti, annovera tra i suoi ingredienti principali l’olio di palma, un prodotto essenziale nelle filiere dell’industria alimentare di tutto il mondo, la produzione intensiva del quale è causa, da alcuni decenni a questa parte, di una massiccia deforestazione soprattutto in regioni tropicali come l’Indonesia e l’Africa centrale.

In anni recenti, vi è stato in Italia un esteso dibattito pubblico sull’olio di palma, tanto che oggi, nei supermercati, è facile trovare prodotti le cui confezioni vantano l’assenza di questo olio vegetale, contro il quale si è puntato il dito soprattutto per il suo presunto impatto negativo sulla salute.

L’olio di palma, estratto dai frutti della specie Elaeis Guineensis, è oggi l’olio vegetale più utilizzato al mondo, con applicazioni non solo nel settore alimentare, ma anche in quello dei mangimi per animali, nella cosmesi, nei prodotti per la casa e nella produzione di biocarburanti. La pianta, originaria dell’Africa occidentale – dove l’olio di palma è un alimento di base nella dieta tradizionale delle popolazioni locali – è oggi coltivata soprattutto in Indonesia e Malesia, che, insieme, forniscono l’84% della produzione globale di olio di palma.

Uno dei “segreti” del successo commerciale dell’olio di palma sta nell’altissima produttività di questa coltivazione rispetto ad altre fonti di olio vegetale: da un ettaro di terra coltivata a palme da olio si ricavano infatti 3,8 tonnellate di prodotto, contro le 0,8 tonnellate per ettaro della colza e del girasole e le 0,5 della soia. Inoltre, l’olio di palma, nella sua forma raffinata, è apprezzato dall’industria alimentare per le sue proprietà organolettiche: la consistenza semisolida, l’elevata stabilità, il sapore neutro ne fanno un ingrediente versatile impiegato in molti prodotti.

L'Unione Europea è il terzo consumatore e il secondo importatore mondiale di olio di palma: ne importa infatti il 10,8% della produzione globale, dopo l’India (12,7%) e prima della Cina (9%). Tra i Paesi europei, l’Italia è il terzo maggior importatore, dopo l’Olanda e la Spagna (dati riferiti al 2019, elaborati dall’European Palm Oil Alliance, EPOA).

Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha implementato diversi strumenti regolativi per far fronte alle numerose questioni ambientali sollevate dal consumo di olio di palma, orientando i propri sforzi a garantire una sempre maggiore sostenibilità della filiera. Ci siamo rivolti, per una esaustiva panoramica del quadro normativo europeo in materia, alla professoressa Eloisa Cristiani, docente di Diritto agro-ambientale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

«Il tema dell’utilizzo dell’olio di palma e della sua sostenibilità sotto il profilo ambientale e sociale – ricorda la professoressa – è esploso, in materia alimentare, nel 2015: era infatti appena entrata in vigore, nel dicembre 2014, la normativa di cui al reg.(UE)n.1169/2011, in base alla quale il legislatore ritiene il consumatore in grado di fare una scelta consapevole e lo dota di strumenti in tal senso, obbligando il produttore a indicare specificamente la presenza dell’olio di palma.

Difficile, invece, individuare veri e propri strumenti normativi in materia. È del 7 dicembre 2015 la Dichiarazione di Amsterdam (“Towards Eliminating Deforestation from Agricultural Commodity Chains with European Countries”), vòlta a implementare una catena di approvvigionamento dell'olio di palma pienamente sostenibile e a fermare la deforestazione illegale entro il 2020. Nel giugno 2017, per iniziativa del ministro dell’Ambiente Galletti, l’Italia ha aderito alla Dichiarazione di Amsterdam, unendosi così a Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Spagna e Regno Unito, che già avevano aderito al protocollo. Secondo il Report Annuale 2020 dell’Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile, la situazione dell’Italia non è per nulla negativa: è il quinto paese al mondo per numero di imprese aderenti. Sono infatti 226 – e il numero è in costante aumento – le aziende italiane associate alla Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), la principale fra le organizzazioni che hanno implementato regole di certificazione volontaria: nelle aziende aderenti è garantito l’utilizzo di prodotto sostenibile, tenuto fisicamente separato dall’olio di palma convenzionale lungo tutta la catena di approvvigionamento». Secondo i dati raccolti dall’Unione Italiana, nel 2019 il 92% dell’olio di palma utilizzato nell’industria alimentare italiana era sostenibile, e il restante 8% era comunque proveniente da catene di approvvigionamento “rispondenti ai criteri di sostenibilità, e dunque da coltivatori impegnati nella lotta alla deforestazione ed allo sfruttamento delle torbiere e rispettosi dei diritti dei lavoratori e delle comunità locali”.

«In ambito legislativo – prosegue Cristiani – si può ricordare anche  la  Risoluzione del Parlamento europeo del 4 aprile 2017 sull'olio di palma e il disboscamento delle foreste pluviali (2016/2222(INI), nella quale si fa riferimento sia all’utilizzo dell’olio di palma come biocarburante, sia al suo impiego nei prodotti alimentari trasformati. Secondo questo documento, pur riconoscendo il contributo positivo apportato dai sistemi di certificazione esistenti, essi non sarebbero ancora in grado di limitare efficacemente le emissioni di gas serra derivanti dalla creazione e dalla gestione delle piantagioni, e non riuscirebbero, di conseguenza, ad evitare imponenti incendi in boschi e torbiere. In esso si chiede pertanto alla Commissione di assicurare una verifica e un monitoraggio indipendenti di tali sistemi di certificazione, garantendo che l'olio di palma immesso sul mercato dell'UE soddisfi tutte le necessarie norme e sia realmente sostenibile. Il Parlamento Europeo osserva inoltre che la questione della sostenibilità nel settore dell'olio di palma non può essere affrontata unicamente con misure e politiche volontarie, ma che sono necessarie norme vincolanti e sistemi di certificazione obbligatori anche per le aziende produttrici di olio di palma».

Nell’Unione Europea, tuttavia, l’olio di palma non viene impiegato soltanto nell’industria alimentare: fino al 2019, infatti, esso ha avuto un largo uso anche come biocombustibile, poiché inizialmente considerato un’alternativa energetica “verde” ai combustibili fossili. Secondo uno studio del 2015 commissionato e finanziato dalla Commissione Europea, infatti, l’olio di palma costituisce il 16% delle materie prime di cui è composto il biodiesel utilizzato all’interno dell’UE, che, secondo MBA (Malaysian Biodiesel Association), ammonterebbe, nel 2019, a 6,9 milioni di tonnellate.

L’utilizzo di biocombustibili pone, in realtà, diversi problemi: ad esempio, se si fa ricorso a coltivazioni che hanno anche una destinazione alimentare – come nel caso dell’olio di palma – la produzione di biocombustibili entra in competizione con la disponibilità di cibo; inoltre, questo utilizzo aggiuntivo può determinare un’accresciuta pressione sulle risorse, in particolare sulla disponibilità di terreni coltivabili, e di conseguenza può contribuire a promuovere la deforestazione. Anche in questo caso, l’intervento dell’UE sul piano della regolamentazione non si è fatto attendere, come spiega Cristiani: «La Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni sullo stato di espansione della produzione delle pertinenti colture alimentari e foraggere nel mondo (Bruxelles, 13.3.2019 COM(2019) 142 final) riporta dati inequivocabili dai quali si evince un aumento “pronunciato” nell’utilizzo dell’olio di palma per la produzione di biocarburanti.

Le rilevazioni satellitari effettuate per Paese (nel caso dell’olio di palma essenzialmente Indonesia e Malesia) – analizzate nel medesimo documento in forma aggregata – documentano che, globalmente, il 45% dell'espansione della palma da olio è avvenuto a scapito di terreni che nel 1989 erano foreste, e che per il 23% la coltivazione si è diffusa nelle torbiere. In particolare, l’impatto ambientale derivante dalla distruzione delle torbiere è impressionante: si legge infatti nella Relazione che “le torbiere devono essere drenate per creare e mantenere una piantagione di palma da olio. La decomposizione della torba comporta emissioni considerevoli di CO2, il cui rilascio continua finché la piantagione è in produzione e le torbiere non sono riumidificate. Nei primi 20 anni successivi al drenaggio, queste emissioni di CO2 raggiungono cumulativamente circa il triplo delle emissioni ipotizzate in precedenza per la deforestazione della stessa superficie”. Per questo motivo, l'olio di palma è classificato come materia prima ad alto rischio ILUC (Indirect Land Use Change): infatti, “l'espansione della zona di produzione in terreni che presentano elevate scorte di carbonio è così accentuata che le emissioni di gas serra derivanti dal cambiamento della destinazione d'uso dei terreni vanificano tutte le riduzioni di emissioni di gas serra provenienti dai combustibili prodotti a partire da questa materia prima rispetto all'uso di combustibili fossili”.

 Alla Relazione ha fatto seguito il Regolamento delegato (UE) 2019/807 della Commissionedel 13 marzo 2019, che detta disposizioni di dettaglio rispetto alla Direttiva (UE) 2018/2001, in base alla quale, a partire dal 31 dicembre 2023, l’uso di biocarburanti prodotti con colture alimentari e foraggere a elevato rischio ILUC (come l’olio di palma) dovrà essere ridotto fino a raggiungere lo 0% al più tardi entro il 2030. Nel 2021 – si legge nel Regolamento citato – la Commissione riesaminerà i dati sui biocarburanti ad alto rischio ILUC e stabilirà una traiettoria per la loro graduale eliminazione entro il 2030. Il Regolamento delegato non solo stabilisce norme per determinare i biocarburanti che presentano un alto rischio ILUC, ma identifica regole per la certificazione dei biocarburanti a basso rischio ILUC. I biocarburanti prodotti a partire dall'olio di palma sarebbero infatti soggetti alla graduale eliminazione, a meno che non soddisfino i criteri rigorosi ivi identificati».

L’Europa, dunque, sembra aver imboccato una direzione chiara, che comporta stringenti controlli circa la sostenibilità delle materie prime che importa, con una particolare attenzione agli impatti indiretti delle proprie azioni – come è il caso della deforestazione indiretta, di cui è implicitamente responsabile chi acquista prodotti che incentivano questa pratica distruttiva. «In materia alimentare – afferma infatti la professoressa Cristiani – l’utilizzo dell’olio di palma sostenibile può essere collocato negli impegni che l’UE ha fatto propri, nell'ambito dell'Agenda 2030, diretti a garantire modelli di consumo e di produzione sostenibili, a incoraggiare le aziende ad adottare pratiche sostenibili e a integrare informazioni sulla sostenibilità nel loro ciclo di comunicazione, nonché a promuovere procedure sostenibili in materia di appalti pubblici, conformemente alle politiche nazionali e alle priorità globali ed entro il 2030.

Come emerge, tuttavia, da numerose analisi di mercato, all’accresciuta richiesta di prodotti “sostenibili” da parte dei consumatori non corrisponde una precisa regolamentazione giuridica circa una etichettatura di sostenibilità. Del resto, l’Allegato alla Strategia europea “Dal produttore al consumatore” per un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell'ambiente (COM (2020) 381, del 20 maggio 2020), che contiene uno scadenzario dettagliato delle ben 27 nuove proposte normative o di revisione  di quelle esistenti,  tratta proprio della necessità di un “quadro legislativo per sistemi alimentari sostenibili” e di “un quadro per l'etichettatura di sostenibilità dei prodotti alimentari per dotare i consumatori degli strumenti necessari per compiere scelte alimentari sostenibili”».

L’Europa ha la possibilità – come nell’ambito della transizione energetica – di assumere un ruolo di leadership mondiale nel guidare la transizione verso nuovi modelli economici sostenibili, attraverso l’adozione di strumenti normativi innovativi che traccino una strada verso la realizzazione degli obiettivi individuati dall’Agenda 2030. Vi sono, tuttavia, diversi fattori che frenano questo cambiamento: non ultimo, i contrastanti interessi geopolitici che, spesso, sottostanno alle transazioni economiche internazionali. Quello degli oli vegetali – e in particolar modo dell’olio di palma – è un business miliardario: chi ne controllerà la produzione e la vendita, e in che modo verrà gestito il problema – sempre più stringente – della disponibilità di terreni su cui coltivare, è un tema non solo economico, ma autenticamente politico.

«Secondo i ricercatori europei del progetto EJOLT (Environmental Justice Organisations, Liabilities and Trade), guidati dall’economista ecologico Juan Martinez Alier dell’Università di Barcellona, i conflitti ambientali – osserva Cristiani – sono “mobilitazioni delle comunità locali e dei movimenti sociali, che possono anche prevedere il supporto di reti nazionali o internazionali, contro particolari attività economiche, costruzione di infrastrutture o impianti di smaltimento di rifiuti o impianti inquinanti in quei casi in cui gli impatti ambientali di tali iniziative costituiscono un elemento chiave”. Nell’ambito del progetto EJOLT, è stato sviluppato un network mondiale di ricercatori e scienziati in grado di catalogare e analizzare, anche su base spaziale, i conflitti ecologici nel mondo e le condizioni di ingiustizia ambientale che li hanno generati. In particolare, l’Atlante dei conflitti ambientali documenta i conflitti sociali relativi a impatti ambientali negativi, o percepiti come tali da parte della società civile, di alcune attività economiche. Ebbene: dall’Atlante si evince che oltre 50 sono i conflitti correlati all’olio di palma, distribuiti in modo omogeneo tra Indonesia, Africa e Centro-Sud America. Di questi alcuni sono ancora a livello “preventivo”, ma numerosi sono anche quelli già arrivati in sede giudiziale; in alcuni casi ci sono pronunzie favorevoli alle istanze di tutela ambientale, ma non sempre, purtroppo, a ciò corrisponde un reale impegno, da parte di enti pubblici o privati, per il ripristino delle condizioni antecedenti al verificarsi del danno ambientale. Tra i vari profili di interesse nell’esame dei dati merita ricordare che ci sono conflitti che vedono coinvolta la multinazionale Wilmar, una delle prime ad avere per il proprio prodotto, dal 2008, la certificazione RSPO-CSPO (Certified Sustainable Palm Oil): non sembra dunque esservi sempre un legame virtuoso tra il conseguimento della certificazione e l’assenza di conflitti ambientali.

Questa circostanza potrebbe confermare le accuse, mosse in particolare dalle organizzazioni ambientaliste, secondo le quali c’è il rischio che la “certificazione” sia solo un’operazione di “greenwashing, al fine di presentare un’immagine pubblica ambientalmente responsabile ma non  corredata da dati scientifici e da prove certe. Tali certificazioni, che spesso fanno capo ad organizzazioni nella cui governance dominano industriali e commercianti con forti interessi economici in gioco, creerebbero solo l’illusione di un’industria sostenibile dell’olio di palma poiché, nella realtà, non garantirebbero realmente sempre la messa al bando delle peggiori pratiche associate alla coltivazione delle palme da olio, ivi inclusa la sparizione su larga scala di foreste e torbiere».

«Sono convinta – conclude la professoressa – che l’Europa potrà giocare un ruolo importante nel momento in cui, tenendo fede all’impegno previsto nell’Allegato alla Farm to Fork Strategy, elaborerà finalmente “un quadro per l'etichettatura di sostenibilità dei prodotti alimentari per dotare i consumatori degli strumenti necessari per compiere scelte alimentari sostenibili”. In attesa di questa normativa chiarificatrice, infatti, proliferano, soprattutto in ambito alimentare, le indicazioni e i richiami alla sostenibilità nella comunicazione commerciale che non sempre vengono garantite da sistemi di certificazione adeguati, sia pur volontari.

Numerosi studi dimostrano infatti che il settore dei consumi alimentari può assurgere ad evidenza simbolica: la raggiunta consapevolezza della necessità di effettuare scelte sostenibili in campo alimentare può essere alla base di un cambio di paradigma. Il consumatore maturo ed educato nelle scelte alimentari all’insegna della sostenibilità può essere il primo disposto a cambiare il suo intero stile di vita e di consumi».

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