SOCIETÀ

Le banche centrali del G20 sono poco "green"

Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile a Bruxelles è girato in bozza il Taxonomy Delegated Act, un documento che nel quadro della nuova politica verde, il cosiddetto Green Deal, indica quali attività possono essere considerate sostenibili dal punto di vista del clima. Il responsabile europeo del WWF, l’economista Sebastien Godinot, ha dichiarato in una conferenza stampa che si tratta di una operazione di “puro greenwashing”. Anche per Reclaim Finance, una ONG che si occupa di finanza sostenibile, la selezione di cosa sia sostenibile o cosa non lo sia proposta in sede europea è discutibile: “Con il pretesto della necessità di aumentare la flessibilità e finanziare la transizione dei settori non green, questa nuova procedura potrebbe portare all'inserimento di attività che ne sono attualmente escluse”. Insomma, si tornerebbe a sostenere proprio quei settori, come quello del gas e dei combustibili fossili, che sono tra i responsabili della crisi climatica in cui ci troviamo.

Le banche centrali hanno sostenuto un sistema finanziario che sta facilitando il cambiamento climatico, la distruzione ecologica The Green Central Banking Scorecard: How Green Are G20 Central Banks And Financial Supervisors?

Una situazione analoga emerge dall’analisi dell’operato delle banche centrali dei membri del G20. “Invece di rispondere alla crisi attuale in modo da dare sostegno alla transizione verso una società più sostenibile e giusta, le banche centrali hanno sostenuto un sistema finanziario che sta facilitando il cambiamento climatico, la distruzione ecologica e un rischio più elevato di pandemie”. Così si legge nell’introduzione a The Green Central Banking Scorecard: How Green Are G20 Central Banks And Financial Supervisors? uno studio condotto da Positive Money, un think tank che propone una visione del mondo bancario e monetario che consenta un'economia equa, democratica e sostenibile. A emergere è una chiara distanza tra dichiarazioni e realtà: “Le azioni non seguono le dichiarazioni, poiché la stragrande maggioranza dei paesi ottiene il massimo dei voti in Ricerca e Advocacy (uno degli indicatori) mentre si comporta male nelle altre tre categorie”. Tradotto: alla fine investono ancora nell’economia fossile.

La posizione di Cina e Brasile

Colpiscono le posizioni occupate da Cina e Brasile, due paesi che non vengono immediatamente in mente quando si parla di politiche verdi. Nonostante, almeno sul piano delle intenzioni, la Cina stia facendo molto sforzo per decarbonizzare, come abbiamo raccontato in un articolo sulle terre rare, o per lo meno per allontanare la propria immagine dalle industrie più “sporche”. I ricercatori di Positive Money fanno notare che per entrambi i paesi le proporzioni dei problemi ambientali sono tali e di una tale risonanza internazionale che è praticamente impossibile ignorarli anche per le rispettive banche centrali. Danni ambientali più evidenti, paradossalmente, possono dare luogo, si legge nel documento, “a un maggiore impulso a rendere più verdi i propri processi di definizione delle politiche”. A differenza di paesi che investono su settori economici poco sostenibili lontano dal proprio territorio, per Cina e Brasile sarebbe quindi impossibile nasconderli e non prenderli in considerazione.

Ma c’è anche qualcosa in più, scrivono sempre i ricercatori. Perché la posizione alta in classifica non significa automaticamente aver risolto almeno qualche problema: “Dovremmo considerare la distanza temporale tra l'annuncio delle politiche, la loro attuazione e l'eventuale realizzazione del loro impatto ambientale positivo”. Come già detto, un conto è fare un bel discorso ecologico, un conto è farlo seguire dai fatti. Inoltre, per quanto riguarda la Cina, il rapporto sottolinea che ci sono stati diversi tentativi da parte di diversi enti nazionali di diffondere il concetto di ‘carbone pulito’, che però è “mito pericoloso”.

Come è stato misurato il punteggio

Gli autori dello studio hanno individuato quattro indicatori principali in cui suddividere l’attività delle banche centrali e pesarne l’aspetto green, per ognuna si è inoltre calcolato il livello di impatto. Si parte da ricerca e advocacy, che comprende l’essere membri o meno del Network for Greening the Financial System (una rete di 83 banche e autorità centrali di vigilanza finanziaria di diversi paesi che mira ad accelerare l'ampliamento della finanza verde) e le pubblicazioni a carattere ambientale, come articoli e rapporti, che vengono intesi come strumenti per indirizzare l’attività monetaria e finanziaria. I ricercatori hanno quindi analizzato la politica monetaria e la politica finanziaria, misurando quanto attento all’ambiente siano sia gli acquisti di asset e gli investimenti, quanta trasparenza ci sia nell’indicare l’impatto ecologico delle proprie attività e delle proprie allocazioni di denaro e valori, oltre a valutare se e quanto gli investimenti e i capitali sono stati testati (stress test) in scenari da crisi climatica e ambientale (come per esempio una pandemia). Infine, hanno valutato quanto l’operato, che per quanto riguarda le banche centrali è anche di indirizzo e consulenza per i governi, risponda all’idea di dare il buon esempio: quanto sono trasparenti i rischi ambientali che la banca corre? Quanto del proprio portafoglio di investimenti è effettivamente sostenibile sul piano ambientale? E quanta attenzione viene messa sul fronte green nelle attività quotidiane della banca?

Meno dell'1% delle banche centrali e delle autorità di vigilanza ha incorporato fattori di sostenibilità nelle loro misure di risposta alle crisi COVID-19 The Green Central Banking Scorecard: How Green Are G20 Central Banks And Financial Supervisors?

Ignorare il rischio ambientale non conviene

Oltre a mostrare il limitato impegno finora concretamente messo in campo dalle banche centrali sul piano ambientale, il rapporto di Positive Money fa un passo in più molto di attualità. Il ragionamento è che la crisi sanitaria dovuta alla pandemia di Covid-19 è, come ampiamente argomentato dagli interventi per esempio di David Quammen, l’effetto della pressione dell’uomo sull’ambiente. Allora, si sono chiesti gli autori, in questo ultimo anno le banche centrali avranno preso in considerazione questo tipo di rischio ambientale e sanitario sulle proprie attività. La risposta è scoraggiante: “meno dell'1% delle banche centrali e delle autorità di vigilanza ha incorporato fattori di sostenibilità nelle loro misure di risposta alle crisi COVID-19”. Cioè, anche di fronte alla prova principe che investire in attività che danneggiano l’ambiente è un rischio anche per le attività economiche, per le banche centrali non c’è stato nessun effetto Covid-19 sulla pianificazione e la ristrutturazione delle proprie attività. Riferendosi al rapporto tra pandemia e cura dell’ambiente, gli autori scrivono che “le banche centrali non sono riuscite in gran parte a riconoscere queste interconnessioni”.

"The evolution of a pandemic", webinar tenuto da David Quammen al Dipartimento di Biologia dell'Università di Padova

Eppure, e qui viene un altro punto che vale la pena sottolineare, le banche centrali sono viste dai governi proprio come ancora di salvezza in situazioni come quella che stiamo vivendo: è attraverso di loro che si possono metter in atto tutta una serie di attività di indirizzo e calmierazione dell’economia che permettono ai paesi di non collassare sotto il peso della crisi economica seguita a quella sanitaria. È qui che dovrebbero essere valorizzate le attività di ricerca e analisi delle stesse banche centrali, le quali secondo gli autori del report, dovrebbero già da tempo aver preso in considerazione i rischi ambientali e i rischi sanitari come fattori determinanti sul medio e lungo periodo. 

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