SCIENZA E RICERCA

Incendi zombie nelle foreste boreali: cosa sono e che impatto hanno sul rilascio di carbonio in atmosfera

Durante la stagione invernale la loro attività distruttiva sembra cessare e invece rimangono latenti nel suolo, pronti a divampare nuovamente non appena le temperature cominciano a risalire.

Sono gli overwintering fires, roghi apparentemente estinti e che invece, a distanza di mesi, tornano ad aggredire la foresta boreale. Per questo motivo vengono chiamati anche incendi zombie e si tratta di un fenomeno in aumento, visto che le condizioni che lo favoriscono sono legate al riscaldamento climatico che nelle regioni artico-boreali viaggia più velocemente della media globale. Negli ultimi due decenni questa tipologia di roghi è stata responsabile di poco meno dell’1% delle aree complessivamente bruciate ma in una particolare annata, si trattava del 2008, oltre un terzo della superficie boschiva dell’Alaska è stato distrutto proprio dagli overwintering fires. E, più in generale, il rischio aumenta quando le estati sono particolarmente calde (circostanza che tende a essere sempre più frequente), mentre la quantità di pioggia o neve che cade sembra essere irrilevante.

Ad approfondire i meccanismi sottostanti alla diffusione degli incendi zombie è uno studio, recentemente pubblicato su Nature, che ha illustrato le fasi tipiche di questo processo (dal primo innesco del fuoco al suo riaffiorare dopo che sembrava spento) e ha proposto un algoritmo in grado di calcolare l’estensione di questi roghi, con la possibilità di applicarlo anche su aree geografiche diverse rispetto a quelle su cui si è concentrato questo lavoro.

Gli autori dello studio, cinque scienziati olandesi e statunitensi, si sono infatti focalizzati sui dati di Nord America e Canada ma l’algoritmo, come ha spiegato al Guardian Sander Veraverbeke, ecologo del paesaggio alla Vrije Universiteit Amsterdam e coautore della ricerca, può essere utilizzato anche per stimare con maggiore precisione l’impatto degli incendi zombie in Siberia.

Questi incendi latenti, affermano gli autori dello studio, “sono associati a estati calde” caratterizzate da incendi che portano il fuoco in profondità nei suoli organici, dove sono immagazzinate quantità particolarmente elevate di carbonio. In questo modo, come sottolineava anche un precedente articolo pubblicato su Nature nel 2019, gli stock di carbonio intrappolati nel suolo delle foreste boreali vengono rilasciati nell’atmosfera, finendo così per avere un effetto negativo sul riscaldamento globale.

Abbiamo chiesto al professor Emanuele Lingua, docente del dipartimento Territorio e sistemi agro-forestali dell'università di Padova, di aiutarci a capire cosa sappiamo sugli incendi latenti e quali meccanismi permettono al fuoco di sopravvivere alla rigidità dell'inverno dell'Artico, ma anche di approfondire gli aspetti più importanti emersi dall'articolo che recentemente è tornato a studiare questo fenomeno.

L'intervista completa al professor Emanuele Lingua del dipartimento Tesaf dell'università di Padova sul fenomeno degli incendi zombie. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Cosa sono gli incendi zombie e come fanno a sopravvivere all'inverno artico

"Il termine zombie fires - introduce il professor Emanuele Lingua, docente del dipartimento Territorio e sistemi agro-forestali dell'università di Padova - è stato coniato in modo colloquiale per descrivere questi incendi che si ritrovavano nello stesso posto, o in prossimità, di un incendio che era scoppiato l’anno precedente e che era sopravvissuto all’inverno artico".

L'idea che il fuoco rimanga attivo anche alle temperature che caratterizzano la stagione invernale di territori così freddi può sembrare particolarmente anomala ma, come ci spiega il professor Lingua, il fenomeno è legato alle particolari condizioni ambientali che ritroviamo in quelle aree. "I suoli sono molto ricchi di carbonio perché sono delle torbiere e gli incendi che riescono a superare l’inverno si sviluppano in profondità, condizione che permette loro di rimanere isolati dall’umidità dovuta alla neve e alle precipitazioni invernali. Questo fa sì che alcuni incendi, che nei mesi precedenti sembravano estinti, si rimanifestino in primavera. 

Con gli overwintering fires la stagione degli incendi si allunga

Una delle principali conseguenze dei roghi latenti è che finiscono per allungare la stagione degli incendi nelle foreste boreali, anticipandola di quasi due mesi. Il fenomeno è noto da tempo ma in passato è stato sottodimensionato perché spesso non veniva nemmeno registrato negli archivi. Adesso le possibilità di monitoraggio sono indubbiamente superiori. "In effetti le immagini satellitari di Copernicus, che ha una sezione che si occupa di monitorare le emissioni degli incendi in atmosfera, hanno permesso di osservare che alcuni incendi si presentavano molto presto in primavera, quindi prima dell’inizio della stagione degli incendi, e che questo avveniva proprio dove c’erano stati altri roghi negli anni passati. In queste aree la stagione degli incendi tendenzialmente va dalla metà di maggio all’autunno perché c’è bisogno che la neve si sciolga, il combustibile si disitrati e abbia inizio il momento di maggiore frequenza dei fulmini che innescano il fuoco. Invece gli zombie fires cominciano prima, facendo così allungare la stagione degli incendi di una cinquantina di giorni", approfondisce il professor Emanuele Lingua. 

L'algoritmo messo a punto dallo studio pubblicato su Nature

Nello studio recentemente pubblicato su Nature i ricercatori hanno utilizzato i dati forniti dalle amministrazioni di Canada e Alaska che sono quindi le aree interessate dal lavoro. Tuttavia i risultati aprono prospettive interessanti anche per territori diversi, interessati dallo stesso problema. Il pensiero va subito alla Siberia perché proprio da questa regione geografica della Russia sono arrivate le prime avvisaglie del fatto che gli incendi dormienti stessero aumentando di frequenza. 

"L’aspetto più interessante di questo lavoro - commenta il docente del dipartimento Tesaf dell'università di Padova - è l’algoritmo messo a punto dagli autori: è costruito in maniera abbastanza semplice ma mettendo in relazione alcuni parametri, come il tempo trascorso dallo scioglimento della neve, la dimensione dell’incendio, la distanza dalle infrastrutture o dalla caduta di fulmini, è in grado di distinguere un overwintering fire da un incendio che si sviluppa da zero".

"Oggi - prosegue il professor Lingua - riusciamo ad avere una visione più completa di questo fenomeno e soprattutto possiamo monitorare se effettivamente la frequenza degli incendi zombie tenderà ad aumentare in futuro in relazione ai cambiamenti climatici".

Le tipologie di incendi

L'immagine con cui rappresentare un incendio zombie non è quella a cui siamo più abituati, vale a dire fiamme che divorano la chioma degli alberi raggiungendo altezze elevate. Se le condizioni sono favorevoli allo sviluppo del fuoco, nel tempo il rogo può assumere anche queste caratteristiche ma l'esordio è completamente differente e nelle prime fasi avanzano a una velocità molto ridotta.

"Gli overwintering fires - approfondisce il docente - sono diversi da come li possiamo immaginare perché non sono gli incendi di chioma con la classica fiamma che brucia gli alberi e nemmeno gli incendi radenti che bruciano la lettiera, lo strato erbaceo e gli arbusti, trovando un combustibile che generalmente è al di sotto dei due metri di altezza. In queste due tipologie di roghi c’è lo sviluppo di fiamma che è il combustibile gassoso che viene bruciato. Ma il combustibile solido, che tradizionalmente sarebbe il nostro pezzo di legno, può anche essere in forma organica, al di sotto della superficie del suolo. Questi incendi sono definiti sotterranei proprio per questo motivo e continuano a bruciare anche al di sotto dello strato di neve durante l’inverno. Sono molto lenti: avanzano a una velocità di quasi un millimetro al minuto e in un anno raggiungono una distanza di poche centinaia di metri. Per questo motivo si vedono esattamente entro i confini o addirittura all’interno del perimetro di incendi che erano scoppiati l’anno precedente e questo permette di capire che si tratta del vecchio incendio che si è risvegliato. Gli incendi di chioma sono invece dotati di una velocità di avanzamento pari anche a dieci o venti metri al minuto".

Il servizio che il canale di notizie statunitense CBSN ha dedicato allo studio sugli "zombie fires" con l'intervista a Randi Jandt, esperta dell'Alaska Fire Science Consortium

E' possibile bloccare sul nascere gli overwintering fires?

Conoscere meglio il fenomeno può aiutare a contrastarlo più efficacemente. "Su questi incendi che all’inizio sono di bassa intensità e velocità si può anche intervenire in maniera rapida perché è facile fermarli. Basta, ad esempio, scavare una piccola trincea e in questo modo quando arriva il fronte di fiamma in fase latente di un incendio sotterraneo lo si riesce a fermare", spiega Lingua. Tuttavia, precisa il docente, "finché rimangono sotterranei sono anche difficili da percepire e si vedono solo delle piccole fumarole. Con dati satellitari si può però vedere un aumento della temperatura del suolo".

Se l'incendio non viene fermato c'è il rischio che trovi una via per arrivare in superficie e questo può accadere, ad esempio, attraverso un albero sradicato. Risalendo verso l'alto "trova più ossigeno, si trasforma in incendio radente e, se ci sono le condizioni adatte, diventa anche un incendio di chioma, incrementando anche superficie e velocità di diffusione".

Il rilascio di grandi quantità di carbonio

La caratteristica degli incendi zombie è quella di svilupparsi in profondità nei terreni torbosi dell'Artico. "Nell’area boreale - entra nel merito il professor Lingua -  lo spessore medio di questi suoli ricchi di torba è di circa cinquanta centimetri. Praticamente è un materasso di combustibile che permette la propagazione di questa tipologia di incendi. Il carbonio stoccato neii suoli è elevatissimo e gli overwintering fires, anche se sono di bassa intensità e non sono veloci, liberano molte sostanze nocive in atmosfera. Non solo carbonio, quindi anidride carbonica e monossido di carbonio, ma anche altri gas come il metano, con un forte effetto sul riscaldamento globale".

"Inoltre - continua il docente - dobbiamo considerare che questi incendi in fase di smouldering, cioè di combustione lenta senza fiamma, hanno un’elevata produzione di fumo biancastro o giallognolo che è ricco di particolato con sostanze carboniose. Si tratta di un fumo che è anche molto persistente perché una combustione senza fiamma spesso è inefficiente e si liberano tante sostanze nocive anche per l’uomo, con lo sviluppo di Pm 10 e Pm 2.5 che superano anche di venti volte i livelli di guardia".

La torbiere hanno un ruolo importante nel ciclo globale del carbonio e possono contribuire a rallentare il riscaldamento del pianeta. Ma possono anche accentuarlo, nel momento in cui le condizioni di temperatura e di umidità si alterano e, ancor di più, quando vengono interessate dal fuoco. E, come noto, ad essere ricche di torbiere sono anche le foreste tropicali, dove i ritmi di distruzione del bosco procedono in modo allarmante.

"Questo è un problema soprattutto in alcune città perché le conseguenze degli incendi non riguardano solo l’area delle foreste boreali, ma anche quella delle foreste tropicali. Lì l’accumulo di sostanza organica non è di cinquanta centimetri ma, secondo quanto dimostrato da alcuni lavori, può arrivare fino a 11 metri. Una volta che la combustione comincia consuma tutto questo materiale e abbiamo emissioni molto elevate con la formazione di una foschia che resta abbastanza a contatto con il suolo, si sposta su lunghe distanze e arriva anche nelle città, con conseguenze gravi per la salute delle persone. I grandi incendi che negli anni scorsi hanno interessato l'Indonesia e il sudest asiatico sono molto preoccupanti non solo per la distruzione degli alberi ma perché hanno provocato un forte rilascio di carbonio e perché la foschia che si è generata ha interessato Singapore e altre grande città, peggiorandone la qualità dell’aria e costringendo le persone a non uscire di casa e a usare le mascherine per filtrare il particolato", spiega il docente dell'università di Padova.

"Gli incendi zombie esercitano una sorta di feedback positivo sui cambiamenti climatici perché, favorendo l’aumento delle temperature e la disidratazione del combustibile, contribuiscono a creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di altri incendi. Queste trasformazioni riguardano anche le torbiere che tendenzialmente sono ricche di umidità ma si stanno asciugando e quindi abbiamo sempre più combustibile pronto a bruciare in profondità. Se associamo questo fenomeno al permafrost che si sta sciogliendo capiamo bene che c’è un accelerazione del ritorno del carbonio in atmosfera", conclude Lingua.

Un ulteriore fonte di preoccupazione deriva dal fatto che nell'Artico i fulmini sono in aumento (sempre in conseguenza delle modificazioni che sta subendo il clima) e questo potrebbe favorire l'innesco di un numero maggiore di incendi.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012