CULTURA

La grande storia della guerra: una conversazione con Gastone Breccia

Gastone Breccia è uno studioso curioso e brillante. Curioso, perché i suoi interessi spaziano dall’antica Bisanzio, di cui insegna cultura e letteratura all’università di Pavia, alla teoria della guerra (su cui ha curato un poderoso volume per Einaudi alcuni anni fa), dal fronte italiano del 1915 ai teatri di crisi oggi, che non solo descrive ma vive. L’ostinata resistenza curda contro l’ISIS e l’infinita (e ora fallita) campagna statunitense in Afghanistan sono guerre che Breccia ha seguito sul campo: analista embedded, col piglio e il metodo dello storico. All’appassionato di studi classici questo aspetto del suo multiforme ingegno potrebbe far simpatia e spingerlo a rievocare i padri nobili del mestiere, da Erodoto a Senofonte. Ad almeno uno dei suoi editori, d’altra parte, ha creato più di qualche preoccupazione: tornerà o non tornerà incolume per finire il prossimo libro?

Ma oltre che curioso e appassionato, Breccia è anche brillante. E rigoroso. I suoi volumi non derogano mai dalle regole fondamentali del mestiere di storico – analisi critica delle fonti, puntualità dell’analisi, complessità dello sguardo – eppure risultano immancabilmente letture piacevoli e stimolanti. Si può non essere sempre d’accordo (talvolta è capitato a chi sta scrivendo), ma le sue pagine sono sempre fonti immancabili di domande intriganti e di spunti per altre ricerche. E poi, rara arte, sono equidistanti tra la pedanteria e la banalità. La prima è un vezzo fin troppo noto nel nostro mondo accademico: decenni di dotte analisi sempre sul medesimo micro-tema riversate in monografie poderose con titoli accattivanti, come “Il giovane tal dei tali tra 1870 e 1885” o “Note per una ricerca su notai del collegio di Forlimpopoli nella prima età moderna”. Un mio vecchio e saggio amico degli anni universitari battezzava invariabilmente questi appassionanti e illuminanti tomi come varianti della nota “Storia della coltivazione della colza nell’alto Lazio nel basso Medioevo”. All’estremo opposto, c’è la banalità in cui si è specializzata la generazione più o meno giovane (giovane di accademia, se non di anagrafe) degli storici rampanti. Quelli che amano pubblicare libri con una sola idea, perché due è troppo, scritti larghi e come romanzi (“perché al pubblico piace!”), e spesso con la profondità di un titolo da collana Harmony. A molti editori piace, perché evoca la lusinga di larghe vendite. Per lo sviluppo di un dibattito solido e critico, invece, è un disastro. Nulla fa più danni al mestiere di storico del libero professionista della ricerca militante che scribacchia alla ricerca di fama facile.

Ecco, i libri di Gastone Breccia sono ben lontani da queste tentazioni. E non perché non cerchino di rendere comprensibili questioni complesse al vasto pubblico, ma perché lo fanno fornendo tutte le informazioni utili a farsi un’idea in proprio e utilizzando un linguaggio accessibile senza banalizzare. La grande storia della guerra (Roma, Newton Compton 2020) è l’ultimo nato di questi saggi sempre piacevoli e utili da leggere (ultimo ancora per poco: insieme a Stefano Marcuzzi Gastone sta infatti scrivendo un volume sulle guerre di Libia per l’editore Il Mulino). Opera ambiziosa, non c’è dubbio. Una ricostruzione generale della guerra à part entiere dalle prime fonti storiche ai giorni nostri è impresa titanica, a cui si sono azzardati solo i grandi vecchi della storia militare, e con esiti non sempre eccelsi perlopiù. A History of Warfare di John Keegan (1993) fu un brillante (ma incompreso) compendio delle dinamiche fondamentali dei conflitti, realizzato da un maestro della disciplina. Il più recente War di Margaret MacMillan è… un coraggioso tentativo, con più di qualche problema. Risultati altalenanti che spingono in effetti a chiedersi: è davvero possibile una “grande storia della guerra”? Esistono davvero leggi fisse che provocano, regolano, determinano gli andamenti e la fine degli scontri armati – almeno quelli ‘legittimi’ tra Stati o coalizioni, per limitarci alla più classica definizione di ‘guerra’? La domanda l’ho girata allo stesso Breccia, che così mi ha risposto:

“La guerra, come ogni altra attività umana, è soggetta a tutta una serie di limiti e condizionamenti economici, sociali e culturali, che possono essere analizzati; è poi condotta da esseri razionali sottoposti a leggi naturali. Tutto questo consente di individuare delle regulae bellorum generales, come scrive Vegezio. Ho bisogno di denaro per produrre armi: necessità economica; sparo un proiettile per eliminare un nemico: azione razionale; il proiettile sparato non può tornare indietro: legge fisica... e così via. Penso dunque sia possibile seguire un filo rosso che lega insieme tutte le guerre attraverso i millenni, perché i caratteri comuni sono davvero molti, sia per quello che riguarda i motivi che spingono i gruppi umani a combattersi tra loro, sia per il modo in cui fanno uso della forza. Aggiungo però: una delle leggi della guerra è che il caso ha spesso un ruolo determinante, e quindi è bene essere molto prudenti nel prevedere l’andamento e la fine degli scontri armati”.

Tu parli di costanti economiche. Però nel tuo libro affermi che “la volontà di mantenere il predominio politico proprio attraverso la funzione militare spiega anche il fatto che si possa scegliere di fare la guerra non necessariamente nel modo più efficace in relazione alle armi e alle tattiche disponibili in un determinato tempo”. Intendi, insomma, che non sempre una logica di natura economica guida le azioni sul campo di battaglia. Con questo comprendi anche l’esistenza di codici scritti e non (penso ai codici dell’onore virile e guerriero che hanno regolato la pratica del combattimento fino almeno all’inizio del XX secolo) che sembrano pensati apposta per complicare la vita di chi combatte?

“Certamente. La guerra è un fenomeno estremamente complesso, che coinvolge le più profonde pulsioni dell’animo umano – a livello individuale – e tutti gli aspetti del vivere sociale, non soltanto quelli economici. Ci sono guerre che non sarebbero mai state combattute, o almeno che sarebbero finite molto prima, se i protagonisti avessero pensato soltanto a quello che potevano ricavarne dal punto di vista materiale: attribuire tutto al semplice desiderio di rapina, o di guadagno, è rassicurante ma riduttivo, e non consente di comprendere davvero la natura profonda della guerra. Che è più misteriosa e inquietante del semplice desiderio di acquisire ricchezza e potere”.

Uno degli aspetti più intriganti del tuo volume è certamente lo spazio che dedichi alla ‘guerra degli uomini’. Sono pagine penetranti e piacevolmente estranee ai tabù linguistici del politicamente corretto. A pagina 23 affermi che “chi ha conosciuto la guerra e le è sopravvissuto proverà sempre sentimenti contrastanti, ma mai del tutto negativi, verso i giorni passati insieme ai compagni a combattere”. In Italia per molto tempo dopo gli anni ‘60, e specialmente nell’ambiente universitario, ‘guerra’ è stato un termine bandito dalla nomenclatura degli insegnamenti e dagli interessi di studio, e ancora oggi è molto ampia la resistenza di fronte all’ingresso della guerra e soprattutto della cultura della guerra nei curricula. Tu però affronti senza censure il tema non solo della ‘seduzione oscura’ della violenza, per dirla con Barbara Ehrenreich, ma anche del vincolo emozionale che si crea tra compagni: il cameratismo, la nostalgia della trincea (o più in generale della giovinezza)…

“Credo che la mia affermazione di pagina 23 suoni addirittura ovvia a chiunque abbia avuto la possibilità di intervistare reduci di guerra, o abbia passato un numero sufficiente di ore a leggere le loro memorie. Può essere considerata un’affermazione politicamente scorretta solo in una società, come la nostra, che ‘ha rifiutato la guerra’ illudendosi che sia sufficiente dichiararlo per cambiare la natura dell’uomo e del divenire storico; e che ha potuto permettersi di farlo solo perché provincia di un impero che le ha aperto un ombrello sulla testa. In guerra si vedono e si fanno cose terribili, è ovvio; i soldati sono i primi ad ammetterlo, e molti di loro ne restano segnati per sempre. Ma in guerra si vedono e si fanno anche cose nobili. Più ancora: in guerra, come in poche altre circostanze dell’esistenza umana, ci si sente parte di uno sforzo comune, uniti a migliaia di altri uomini disposti a lottare, sacrificarsi, morire per uno scopo condiviso la cui importanza non può certo sfuggire ad alcuno. In guerra uomini e donne scoprono spesso di possedere energia, resistenza fisica e morale, capacità di collaborare con i loro simili che nemmeno sospettavano di possedere. E questo li fa sentire felici. L’ho visto negli occhi dei giovanissimi miliziani curdi in Siria: anche se erano ben consapevoli non solo dei rischi che stavano correndo, ma delle rinunce che erano costretti e costrette a fare, nessuno di loro avrebbe scelto un destino diverso. E non solo perché sentivamo di lottare per una giusta causa: questa era, ovviamente, la prima spiegazione, quella razionale e ‘presentabile’. In realtà erano felici perché combattevano. Felici di avere compagni in una trincea nel deserto pronti a sacrificarsi con loro e per loro, mentre milioni di loro coetanei, in giro per il mondo, non sanno perché si alzano dal letto alla mattina”.

Tu dedichi le ultime pagine del volume all’incertezza del futuro. Per alcuni decenni, l’assioma condiviso dagli analisti e dagli stati maggiori è che la guerra convenzionale – ‘industriale’, come l’ha definita Rupert Smith – fosse definitivamente tramontata, a beneficio dei conflitti asimmetrici. Oggi alcuni paesi europei riprendono in esame la possibilità di scontri su vasta scala, e si ricomincia a pianificare (la Francia lo sta facendo proprio in queste settimane) scenari di possibili conflitti maggiori.

“Questo è un tema che meriterebbe un altro libro intero (intanto posso consigliarne due, interessantissimi, che purtroppo ho letto soltanto dopo aver finito il mio: Sean McFate, The New Rules of War. Victory in the Age of Durable Disorder, e Andreas Kireg – Jean-Marc Rickli, Surrogate Warfare. The Transformation of War in the 21st Century). La guerra cambia volto più rapidamente di quanto ci aspetteremmo: negli ultimi decenni abbiamo creduto di riconoscerlo nei conflitti asimmetrici e nella ‘guerra tra la popolazione’, per restare alla definizione di Rupert Smith. Era giusto, in quel momento, ma abbiamo commesso l’errore di considerare questa metamorfosi come ‘definitiva’. Non lo era; non lo può essere. All’orizzonte – che personalmente vedo molto, molto carico di nubi – si profila già un diverso volto della guerra, sfregiato da cambiamenti climatici, migrazioni di massa, neo-nazionalismi, forse persino da pandemie peggiori del Covid-19. Un volto che non sarà simile a quello dei grandi conflitti del XX secolo – non ci saranno scontri tra centinaia di mezzi corazzati nelle pianure europee, ad esempio – ma non sarà nemmeno una versione aggiornata delle sporche piccole guerre tra proxies come quelle combattute oggi in Siria, Libia, o nel Donbass. Dovranno muoversi i ‘potenti della Terra’, perché la terra sarà sempre più insufficiente a reggere il peso dell’umanità. E, come ho scritto, i conflitti per l’acqua saranno molto peggio di quelli per l’oro, o per il petrolio”.

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