CULTURA

Giotto e i suoi, patrimonio di tutti

Fair Padua, nursery of arts: lo scriveva Shakespeare più di 400 anni fa, adesso è ufficiale anche per l’organizzazione delle Nazioni Unite dedicata all'educazione, alla scienza e alla cultura. Mentre ancora si sedimenta l’emozione per l’ammissione di Padova Urbs picta nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco, emerge la soddisfazione per il coronamento di un cammino decennale che non solo ha portato Padova nella ristretta élite dei centri con due siti nella World Heritage, ma che negli anni ha anche innestato una riflessione sul suo patrimonio artistico e culturale cittadino e sul suo rapporto con il territorio.

Una candidatura al femminile

Fin dall’inizio il percorso che ha portato alla decisione da parte dell’Unesco ha visto in prima linea l’ateneo a fianco del Comune e degli altri enti coinvolti (Diocesi, Basilica di Sant’Antonio, Accademia Galileiana e Soprintendenza). “Questo riconoscimento è anche il risultato di un secolo di studi condotti nella nostra università – spiega a Il Bo Live Giovanna Valenzano, docente di storia dell’arte medievale e prorettrice a patrimonio artistico, musei e biblioteche –. Soprattutto però tengo a sottolineare che è stata una candidatura molto al femminile: dalla preparazione dei materiali, per cui molta parte del merito va a Federica Millozzi dei Musei Civici del Comune di Padova e ad Adele Cesi del Ministero, al gruppo di colleghe storiche dell’arte che hanno contribuito con ricerche e conferenze. Non credo sia un caso: è stato un lavoro costante di scrittura e riscrittura, un enorme cuci e scuci in cui competenza, pazienza e attenzione sono state doti fondamentali”.

Del resto sono proprio la cultura e la società trecentesche a offrirci immagini di donne molto diverse dai cliché sul medioevo. “Molte studiose dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna mi hanno già scritto per farmi i complimenti – chiosa la studiosa –. Gli affreschi del Trecento, in molti casi frutto di committenze femminili, sono assai studiati da oltre 50 anni anche riguardo al tema del ruolo della donna nell’arte medievale. Di fatto proprio a Padova troviamo per la prima volta l’immagine di una committente donna dipinta in tutta la sua rilevanza, Fina Buzzacarina, ma anche altri cicli sono legati a figure di donne committenti. Nel dossier presentato per l’iscrizione nella lista Unesco è stato messo molto in luce il ruolo di queste donne, come Caterina dei Franceschi: un tema che purtroppo non è stato ben sottolineato in questi giorni”.

Presso la Basilica del Santo, uno degli otto siti selezionati, si conserva anche una tomba che raffigura Bettina di San Giorgio, figlia di un Giovanni d’Andrea che insegnò diritto canonico a Padova dal 1306 al 1308. “La stessa Bettina, che aveva sposato Giovanni di San Giorgio, docente di diritto canonico prima a Bologna e poi a Padova, tenne lezioni tra il 1347 e il 1355. Non poté essere titolare d’insegnamento, ma spesso sostituiva il marito a lezione ed era lodata presso i contemporanei per la sua conoscenza del greco e per le bellissime lezioni che teneva in perfetto latino. Una preziosa testimonianza del ruolo delle donne nel Medioevo. In questo clima culturale fortemente innovativo hanno visto la luce i cicli pittorici che hanno reso famosa Padova presso i pittori del rinascimento e al centro degli studi di generazioni di storici dell’arte, da Schlosser e Venturi, a Longhi e Bettini, ma anche di molte donne storiche dell’arte come Francesca Flores D’Arcais, Giordana Mariani Canova, Serena Romano e Louise Borduà. fino a Zuleika Murat, formatasi proprio a Padova, a cui si deve la più recente monografia su Guariento, vincitrice di un importante progetto ERC”.

Il nodo di Palazzo della Ragione

Padova non è una grande città ma conta più di qualche primato. Luogo di insegnamento di Galileo e culla secondo Herbert Butterfield della rivoluzione scientifica, grazie a figure come Lovato Lovati e Albertino Mussato è stata anche patria dell’umanesimo ben prima di Firenze: perlomeno stando a Ronald G. Witt, massimo studioso statunitense del Rinascimento. E oggi viene riconosciuta anche dall’Unesco come luogo simbolo del rinnovamento pittorico e figurativo che sul finire del medioevo ha cambiato per sempre il corso dell’arte occidentale. Non solo per il Giotto della “solitudine scrovegna”, ma anche per coloro che durante tutto il Trecento seppero raccogliere e sviluppare la sua eredità: Guariento, Giusto de’ Menabuoi, Altichiero da Zevio, Jacopo Avanzi e Jacopo da Verona.

“All’inizio è stato importante convincere il ministero che i cicli del Trecento a Padova fossero la candidatura su cui puntare – continua la studiosa –: cosa forse scontata per gli storici dell’arte, ma che bisognava far comprendere anche ai più. Gli affreschi degli Scrovegni sono il suo ciclo meglio conservato, il cui valore eccezionale è riconosciuto a livello mondiale, ma in città ci sono anche altre opere di Giotto come le pitture della sala capitolare e l’arco di Santa Caterina nella basilica di Sant’Antonio, molto deteriorati e magari non di grande impatto per il pubblico, ma assolutamente straordinari e importanti per comprendere il suo bagaglio culturale quando giunse a Padova nel 1302, oltre che per valutare gli esiti delle sue nuove ricerche prospettiche evidenti nel ciclo degli Scrovegni. Era inoltre importante includere Palazzo della Ragione, nonostante il ciclo originale trecentesco giottesco sia rimasto distrutto dall’incendio del 1420”.

Proprio la valorizzazione del Salone di Palazzo della Ragione, tuttora la più grande sala pensile al mondo, è stato uno dei punti più delicati dell’intero progetto. “Ci siamo interrogati a lungo con l’allora direttore dei Musei Civici Davide Banzato sull’opportunità di inserirlo: alla fine lo abbiamo fatto lavorando sul concetto di memoria, molto importante per l’Unesco, mettendo in evidenza quanto questo ciclo rifletta quello giottesco e ne raccolga l’eredità iconografica. Era molto importante inserire un sito di pittura profana, perché anche nel medioevo l’arte non era esclusivamente relegata a luoghi e temi religiosi: dalle fonti scritte sappiamo ad esempio che non solo i palazzi pubblici erano interamente dipinti, ma anche quelli privati e le stesse case nobiliari e dei ceti emergenti”.

Era fondamentale a questo riguardo provare il legame tra gli affreschi attualmente presenti a Palazzo della Ragione e quelli giotteschi; per farlo ci si è basati sugli studi di Giordana Mariani Canova, docente emerita a Padova, che analizzando le miniature padovane dell’epoca o successive ha in parte ricostruito l’iconografia originale del Salone, ma anche su una serie di indagini appositamente condotte dal CIBA, il centro interdipartimentale dell’università di Padova che si occupa dello studio e della conservazione dei beni archeologici, architettonici e storico-artistici. I risultati sono stati sorprendenti: in seguito ai rilevamenti condotti sotto la supervisione della direttrice Rita Deiana su alcune aree test all’interno del Salone, utilizzando tecnologie innovative come imaging multispettrale, rilievo con scanner a luce strutturata e termografia, sotto le attuali pitture sono state infatti ritrovate tracce di uno strato precedente trecentesco, aprendo un nuovo capitolo nella conoscenza di uno degli edifici storici più noti e importati di Padova.

“Le analisi hanno confermato un’ipotesi che avevo avanzato qualche anno fa – spiega ancora Giovanna Valenzano –, ovvero che l’incendio del 1420 non avesse completamente distrutto tutte le parti alte del Palazzo della Ragione, frutto dell’innalzamento realizzato da Giovanni degli Eremitani, straordinaria figura di frate ingegnere e architetto. Come ricorda il racconto di Giovanni da Nono, giudice vissuto nella prima metà del Trecento che ci ha lasciato una descrizione di tutti gli edifici della città di Padova nel medioevo, compreso Palazzo della Ragione con l’elenco dei negozi e delle attività che si svolgevano intorno alle piazze. Molto importante per la valutazione dell’Unesco, oltre il valore storico-artistico, è stato infatti il ruolo che da oltre otto secoli l’edificio continua a svolgere nella vita e nell’economia della città, in particolare con le famose botteghe sotto al Salone”.

Rita Deiana, direttrice del CIBA, spiega i risultati delle indagini a Palazzo della Ragione

L’influenza di Pietro d’Abano e dello Studium  

Un’altra caratteristica importante degli affreschi padovani, citata espressamente dall’Unesco, è che derivano dallo scambio di idee tra artisti e “protagonisti del mondo della scienza e della letteratura”. Un’osmosi particolarmente visibile nella Cappella degli Scrovegni, dove Giotto intuisce e inizia a sperimentare con padronanza crescente le regole prospettiche: “Assisi e Padova hanno molti punti in comune, tra cui l’invenzione e l’utilizzo della scatola spaziale – chiarisce la storica dell’arte –; è però a Padova che Giotto matura definitivamente: lo vediamo andare ancora a tentativi nel riquadro della cacciata di Gioacchino, ma già il quelli successivi acquisisce progressivamente una consapevolezza senza tentennamenti”.

È a Padova che il maestro toscano inizia a padroneggiare la perspectiva, intesa come scienza della visione: qui per la prima volta dispiega tutta la sua forza visiva il “Giotto spazioso” di cui parla Roberto Longhi. Un modo nuovo di concepire e dipingere lo spazio che, secondo Giovanna Valenzano, può essere spiegata soltanto con gli studi di ottica che in quel periodo venivano condotti nello Studium cittadino, in particolare sotto la guida di Pietro d’Abano: “Giotto e Pietro all’epoca erano entrambi famosi e, secondo quanto scrive Giovanni da Nono, lavorarono insieme a Palazzo della Ragione”. È inoltre possibile che i due maestri abbiano collaborato anche nella cappella degli Scrovegni: prova ne sarebbe la celebre raffigurazione nell’adorazione dei magi. “La grande invenzione giottesca nella realizzazione della stella cometa come una palla di fuoco, rappresentata per la prima volta in termini scientifici, non può che essere letta come una trasposizione alla lettera della descrizione che della cometa Halley ci ha lasciato Pietro d’Abano, il quale aveva a questo riguardo proseguito e sviluppato le ricerche ottiche e astronomiche già avviate da Witelo”.

Gli affreschi del Trecento sono insomma una realtà da vedere ma soprattutto ancora da studiare, e per certi versi da scoprire. Un patrimonio che oggi appartiene un po’ più a tutti, grazie all’impegno di tanti.

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