SOCIETÀ

Il 25 novembre per l’eliminazione della violenza contro le donne

Il 25 novembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita con risoluzione del 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite in ricordo delle tre attiviste politiche Patria, Minerva e María Teresa Mirabal brutalmente assassinate nel 1960 durante il regime dominicano di Rafael Leónidas Trujillo. La ricorrenza segna anche l’inizio dei “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere” che precedono la giornata mondiale dei diritti umani il 10 dicembre: nel 1993 la Conferenza mondiale sui diritti umani ha infatti riconosciuto la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani.  

“La giornata internazionale - sottolinea Paola Degani, docente del dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova e del Centro di ateneo per i diritti umani “A. Papisca” -, nasce da un’evidenza globale che è quella della pervasività del fenomeno della violenza degli uomini contro le donne. Si tratta di un fenomeno strutturale, globale”.  E i dati lo dimostrano: a livello mondiale si stima che quasi una donna su tre (736 milioni) abbia subito almeno una volta nella vita violenza da parte del partner, violenza sessuale da parte di persona diversa dal partner o entrambi (il 30% delle donne dai 15 anni in su). Cifra, questa, che non include le molestie sessuali. Il fenomeno genera anche conseguenze sulla salute: è stato calcolato che patologie come la depressione, i disturbi d'ansia, le gravidanze non pianificate, le infezioni sessualmente trasmesse e l'infezione da HIV siano più frequenti nelle donne che hanno subito violenza rispetto a quelle che non l'hanno subita. 

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne - continua la docente - non è solo un evento di carattere simbolico che in qualche maniera evoca questo fenomeno sociale, ma è qualcosa di più perché corrisponde a un impegno politico a livello internazionale e a un orientamento verso la prospettiva dei diritti umani”.  

Nel 1993 l’adozione della Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne è stato il primo strumento internazionale che ha inteso affrontare esplicitamente il problema, fornendo un quadro per l'azione nazionale e internazionale. In questo contesto, la violenza contro le donne viene definita come “qualsiasi atto di violenza fondato sul genere che comporti, o abbia probabilità di comportare, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia che si verifichi nella sfera pubblica che in quella privata”. Il secondo strumento giuridicamente vincolante è stata la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) adottata nel 2011. 

“Sul piano dell’impegno istituzionale a livello nazionale è indubbio che in questi anni i governi hanno operato per dare effettività ai vincoli che derivano dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa. Questo in Italia è un dato inequivocabile”. Secondo Degani, questo dato tuttavia presenta numerose criticità. “Si è lavorato molto sul piano della risposta penale, del rafforzamento dell’impianto repressivo e sanzionatorio, ma la convenzione di Istanbul non mette questo aspetto dell’intervento pubblico in primo piano, non lo colloca in una posizione privilegiata rispetto a quelle che devono essere le altre aree di intervento e cioè la prevenzione, la protezione delle donne e anche la riparazione del danno che le donne subiscono dalla violenza”.

Molto altro c’è da fare dunque su questi altri versanti che non sono separati l’uno dall’altro, ma si pongono in una logica di continuità. “Tengo peraltro a precisare che tutte queste operazioni risultano essere assolutamente inficiate nella loro potenzialità laddove la società, la politica, l’economia nel loro complesso non si muovano in una direzione idonea a superare le discriminazioni e le differenze di potere che le donne vivono, perché è su questa differenza di potere che si edifica la violenza. Se queste differenze in termini di risorse, di riconoscimento, di dignità, di rispetto, di possibilità reali non esistessero, anche la violenza verrebbe meno. Per cui operare con scelte di carattere politico che impattano sul  singolo episodio, ma non sul meccanismo che genera questi episodi, è limitante”.

I centri antiviolenza sono il perno del lavoro sulla violenza contro le donne

Degani osserva che la violenza contro le donne è un dato strutturale, perché è un elemento delle relazioni tra uomini e donne nella società. Non è il conflitto che normalmente può insorgere nelle relazioni di coppia, nelle relazioni intime, la violenza è qualcosa che va ben oltre. “Quando parliamo di violenza, parliamo di un soggetto, la donna, che si relaziona con uno o più soggetti, gli uomini, e questa relazione è caratterizzata da una disparità di potere che non ha nulla a che fare con le normali dimensioni conflittuali. La relazione violenta è, per forza di cose, una relazione sbilanciata, sia che si tratti di violenza fisica, di violenza psicologica, economica, sessuale, o che sia stalking o shaming, tutte quelle forme di sopraffazione atte in qualche modo a limitare la libertà della donna, a violare i suoi diritti umani, non riconoscendone la dignità di cui invece è portatrice”.

La violenza contro le donne è un fenomeno sociale, ribadisce Degani, esteso, trasversale, pervasivo. “In questi ultimi anni si è lavorato molto per fotografare il sistema dei servizi, cioè la presenza nei territori dei servizi specializzati, i centri antiviolenza, e dei servizi generalistici che sono invece i servizi sociali con spazi preposti a raccogliere i bisogni delle donne vittime di violenza. Non si è lavorato invece per conoscere la diffusione della violenza, la reiterazione e la gravità della violenza. Si conosce molto sul sistema, ma si è fatto poco per monitorare le trasformazioni del fenomeno. Alcune sono evidenti, e sono legate alla diffusione dei social media, degli strumenti informatici. E’ evidente poi il fatto che la casa per le donne è l’ambiente che presenta il maggior pericolo dal punto di vista dell’incolumità fisica, ma anche dal punto di vista della qualità della vita, perché dentro le case si consumano situazioni di sopraffazione indescrivibili che possono arrivare ai femminicidi”. Osservazioni, queste, che trovano conferma nei dati riportati dalle Nazioni Unite: a livello mondiale, la maggior parte della violenza contro le donne è perpetrata da mariti o ex mariti o da partner intimi. Più di 640 milioni di donne dai 15 anni in su hanno subito la violenza da parte del proprio partner (il 26% delle donne dai 15 anni in su). Tra quelle che hanno avuto una relazione, quasi una ragazza adolescente su quattro tra i 15 e i 19 anni (24%) ha subito violenza fisica e/o sessuale da un partner intimo o da un marito.

Nel nostro Paese, si è lavorato molto, secondo la docente, per aumentare la conoscenza della governance territoriale, del sistema di intervento, molto meno sull’approfondimento della fenomenologia. “Questo è abbastanza comprensibile, perché lavorare sul fenomeno non è semplice, i dati non comunicano tra loro, ci sono vincoli legati alla privacy e all’estemporaneità dei percorsi e molte donne non permettono un monitoraggio sistemico. Lavorare sui servizi, anziché sulle donne, è anche una scelta di campo che in qualche modo ci deriva dagli obblighi internazionali collegati alla Convenzione di Istanbul, ma anche da obblighi di valutazione e di rendicontazione dei finanziamenti pubblici destinati  ai centri antiviolenza”.

Paola Degani sottolinea l’importanza di queste strutture, evidenziandone il lavoro esemplare condotto in questi anni, pur con le criticità che si possono riscontrare. “I centri antiviolenza sono il perno del lavoro sulla violenza contro le donne, perché sono le realtà operative e politiche deputate a sviluppare con le donne percorsi di empowerment, di uscita dalla violenza, di rafforzamento della consapevolezza, di risposta ai loro bisogni. Sono percorsi orientati a una relazione alla pari, in cui l’ascolto della donna e la credibilità della narrazione della donna vengono messi al primo posto. Credere al racconto della donna è il primo paradigma per poter operare un cambiamento radicale nella narrazione pubblica della violenza contro le donne. La narrazione, i fatti che le donne raccontano e che entrano anche nelle aule giudiziarie devono essere accolti, letti e interpretati per ciò che sono, al di là di ogni stereotipo, di ogni valutazione di giudizio del comportamento della donna, mettendo al centro la gravità delle condotte degli uomini sulle donne. E questo è fondamentale, è un cambio di paradigma”. 

Credere al racconto della donna è il primo paradigma per poter operare un cambiamento radicale nella narrazione pubblica della violenza contro le donne

In questo contesto, ci si chiede quanto contino l’educazione familiare e la formazione scolastica nel veicolare una cultura contro la violenza sulle donne. “Mi piacerebbe pensare molto, però per pensare in questa direzione serve lavorare molto. Bisogna rafforzare le relazioni che trasmettono una rappresentazione del rispetto e del riconoscimento dell’altro, una rappresentazione idonea a diventare il veicolo educativo di un modello”. 

Secondo Degani, nelle scuole è importante lavorare su queste tematiche in modo non estemporaneo, ma sistematico, e affrontare questi problemi con i più giovani con gli strumenti, i linguaggi, la sensibilità e gli approcci adeguati, dato che potrebbe esserci chi in qualche misura è vittima di violenza diretta. “Personalmente ritengo che sia molto importante confrontarsi con le ragazze e i ragazzi e credo che questo confronto possa essere utile laddove viene sviluppato con una continuità nel tempo che permette di radicare, di consolidare un ragionamento, una riflessione che va oltre il dato di una singola iniziativa: si tratta, cioè, di sviluppare dei percorsi”. 

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