SOCIETÀ

Elezioni in Libano: crolla il blocco pro Hezbollah

Il dato più eclatante che emerge dalle elezioni di domenica scorsa in Libano è la sconfitta del blocco pro Hezbollah, il gruppo armato nazionalista sciita, sostenuto dall’Iran, che ha perso la maggioranza del Parlamento unicamerale. Nel 2018 aveva conquistato 71 seggi su 128 complessivi: ne sono rimasti 61. Non un risultato catastrofico, ma di certo un brusco ridimensionamento per il partito guidato da Hassan Nasrallah. Aumentano invece i parlamentari delle Forze Libanesi (ne ha conquistati 19), la formazione cristiana di estrema destra, nata come spin-off del Partito Falangista Libanese, che può contare sul sostegno dell’Arabia Saudita. Ma il risultato più rilevante di questa tornata elettorale è il successo dei candidati riformisti della società civile, che hanno costruito il loro consenso sulle istanze anti-establishment del movimento di protesta del 2019: 13 seggi, e potrebbero diventare di più se riuscissero a catalizzare il consenso degli altri 16 parlamentari indipendenti, ma di diversi orientamenti politici. Mentre Saad Hariri, leader del Movimento Futuro, sunnita, si è ritirato dalla politica attiva e ha invitato i suoi sostenitori a boicottare le elezioni. L’affluenza alle urne è stata del 49%. Nel nuovo Parlamento siederanno 8 donne: è un record.

Il pantano del “confessionalismo”

Il Libano è un Paese stremato. Senza più forze, senza più fiato, con l’80% della popolazione che tenta quotidianamente di sopravvivere ben al di sotto della soglia della povertà, nel pantano di un default del debito sovrano (qui una ricostruzione di cosa è accaduto e perché) che negli ultimi due anni ha spazzato via cibo, medicinali, corrente elettrica e speranza dagli orizzonti della stragrande maggioranza delle famiglie libanesi. Con la stessa violenza della devastante esplosione che nell’estate del 2020 distrusse gran parte del porto di Beirut e dei quartieri circostanti, con oltre 220 vittime (e i 2 parlamentari sotto indagine sono stati appena rieletti). Ma il Libano è anche politicamente una realtà complessa, con quasi 7 milioni di abitanti, 18 diverse comunità religiose e un sistema elettorale basato su quote settarie, il “confessionalismo”. Che prevede una struttura di condivisione del potere tra cristiani e musulmani in base alla quale il primo ministro, il presidente della nazione e il presidente della Camera devono provenire dai tre maggiori gruppi religiosi del paese: rispettivamente sunniti, cristiani maroniti e sciiti. Un complesso gioco di equilibri, elaborato dagli Accordi di Taif, firmati alla fine della guerra civile, nel 1989, che ha di fatto cristallizzato il potere non soltanto tra i rappresentanti delle diverse confessioni religiose, ma tra clan e famiglie che ne dispongono come “cosa loro”, in perfetto stile mafioso, in una ragnatela di corruzione e privilegi che porta benessere a pochissimi, mentre milioni di persone precipitano nella disperazione. Quegli accordi, oramai è evidente, non reggono più. Nel 2019 (prima del default, prima dell’esplosione al porto) esponenti della società civile libanese, studenti, impiegati, avevano cominciato ad alzare la voce, a scendere in piazza per chiedere riforme economiche, sociali e politiche. Per protestare contro il malgoverno, contro la corruzione endemica. Per chiedere l’introduzione di un “patto laico”, che escludesse le confessioni religiose dal potere politico. Proteste che portarono alle dimissioni dell’allora premier Saad Hariri, ma non certo a mettere in discussione il sistema confessionale.

Oggi però, in questa palude inaccessibile, s’è accesa una fiammella di speranza proprio con l’elezione dei 13 parlamentari indipendenti (i sondaggi più ottimisti parlavano di 8 seggi). Che non devono rendere conto alle “famiglie” del loro operato in Parlamento. Che potrebbero essere il “virus” per far saltare, dall’interno, il meccanismo della ripartizione settaria del potere. «Sono loro il fermento della pasta che ci aspettiamo di vedere lievitare», scrive Issa Goraieb, editorialista del quotidiano libanese L’Orient-Le Jour. «Loro non hanno una clientela specifica da servire con amministrazioni pubbliche disgregate, né interessi commerciali, industriali, bancari o mafiosi da preservare o gestire. E l’avvento di questo nuovo sangue non può che suscitare, stimolare, l’interesse della comunità internazionale per il nostro Paese in crisi». Bisognerà ora vedere se questo nuovo movimento “thawra”, rivoluzione, che gli analisti identificano con la sigla “17 ottobre” (data d’inizio delle proteste del 2019), che comprende variegate liste (da United for Change a Citizens in a State, a Together for Change), riuscirà a trovare un punto di sintesi, un’unità d’intenti e anche una guida in grado di dare spessore alla loro presenza in Parlamento. Non sarà semplice, come scrive ancora L’Orient-Le Jour: «La sfida per i mesi e gli anni a venire è lì. Spetterà a questi deputati costruire una sorta di “disciplina parlamentare” che consenta loro di trovare voce contro i blocchi tradizionali. Elezione del Presidente del Parlamento, investiture del nuovo governo e del successore di Michel Aoun (Presidente del Libano), ma anche adozione di un bilancio, accordo con il Fondo Monetario Internazionale, controllo dei capitali e indagine sulla doppia esplosione del 4 agosto: in tutti questi fascicoli il progresso si può ottenere soltanto con la chiarezza delle posizioni e con la convergenza dei voti».

Intimidazioni e irregolarità ai seggi

L’alleanza sciita (Hezbollah-Amal) ha sostanzialmente mantenuto i propri seggi, mentre ne ha persi il loro alleato cristiano, il Movimento Patriottico Libero (Courant Patriotique Libre) del presidente uscente Michael Aoun. E sono in molti a ritenere che l’aver perso la maggioranza assoluta non cambierà comunque, nella sostanza, la predominanza di Hezbollah nell’azione politica. In una votazione comunque caratterizzata da intimidazioni e minacce, con liti tra fazioni e sparatorie all’esterno dei seggi, tra irregolarità diffuse sia nella consegna delle schede sia nello spoglio delle stesse, con plateali episodi di compravendita di voti all’uscita dei seggi. Il Guardian riporta la testimonianza di una donna a un seggio di Beirut ovest: «Devono darmi qualcosa. Cos'altro posso ottenere da queste persone»? L’Associazione libanese per le elezioni democratiche (LADE) ha denunciato numerose intimidazioni nei confronti dei suoi osservatori. Anche l’Unione Europea ha inviato un team di osservatori, che in un rapporto, citato dal New York Times, ha scritto: «La campagna elettorale è stata distorta da un’elevata monetizzazione del voto, in cui ha prevalso una cultura di elargizioni in natura e finanziarie a fini elettorali da parte di istituzioni di proprietà o gestite da candidati o partiti».

Certo è che il prossimo Parlamento sarà spaccato in due. Da un lato c’è Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”), gruppo paramilitare armato, sostenuto dall'Iran, sciita, che gli Stati Uniti considerano un'organizzazione terroristica. I suoi sostenitori lo vedono come baluardo contro il nemico numero uno: Israele. Pochi giorni prima delle elezioni il suo leader, Seyed Hassan Nasrallah, ha ribadito il ruolo di “protezione” del suo movimento: «Coloro che chiedono il disarmo di Hezbollah ignorano i risultati in merito alla liberazione dei territori libanesi occupati. I partiti che chiedono il disarmo di Hezbollah vogliono vendere il Libano agli Stati Uniti e renderlo passivo nei confronti di Israele». I suoi detrattori, invece, descrivono Hezbollah come “uno stato nello stato”, la cui stessa esistenza impedisce, anche con le armi, qualsiasi tipo di cambiamento democratico in Libano. L’altra forza portante del Parlamento sarà rappresentata dall’estrema destra delle Forze Libanesi, guidate da Samir Geagea, cristiano-maronita, ex comandante delle milizie cristiane durante la guerra civile libanese. Che in campagna elettorale annunciava: «Le prossime non saranno elezioni, ma una battaglia per salvare il Libano dalla milizia (Hezbollah) e dalla mafia». Ha conquistato 19 seggi, dai 15 che aveva nel 2018, diventando così il partito più votato.

Crisi economica senza precedenti

Difficile che tra questi due blocchi si riesca ad arrivare, se non a una sintesi, almeno a qualche accordo che possa consentire al Libano di uscire dall’emergenza. Appena dopo il voto uno dei leader di Hezbollah, Mohammad Raad, ha già lanciato il primo avvertimento agli avversari: «Fate attenzione ai vostri discorsi, ai vostri comportamenti. Vi accettiamo come avversari in Parlamento, ma non come scudi a protezione degli israeliani». «Questa polarizzazione ha oscurato i dibattiti sulla crisi», sostiene Karim Bitar, direttore del dipartimento di scienze politiche dell’Università Saint-Joseph di Beirut. «Il ballottaggio si è trasformato in un referendum a favore o contro Hezbollah, il che ha complicato il compito dell’opposizione».

La conseguenza più probabile di questa contrapposizione tra forze parlamentari pro o contro Hezbollah sarà la paralisi. Eppure c’è un nuovo governo da formare, un nuovo presidente del Libano da eleggere (il mandato di Michael Aoun scade a ottobre: e il leader del blocco cristiano Samir Geagea aspira al ruolo). E, soprattutto, c’è la colossale questione economica da affrontare. Una serie di riforme urgentissime da mettere a terra, e da rispettare, per ottenere dal Fondo Monetario Internazionale l’indispensabile aiuto per rimettere in carreggiata i conti del Paese dei Cedri. In ballo c’è un prestito di 3 miliardi di dollari in 4 anni, ma solo se il governo saprà dare garanzia di attuazione delle riforme finanziarie. A partire dalla ristrutturazione del sistema bancario, con il governatore della Banca Centrale, Riad Salameh, formalmente accusato di corruzione, di arricchimento illegale e di riciclaggio di denaro. La ricchezza di Salameh (proprietario tra l’altro di diversi edifici a Parigi) è attualmente sotto indagine da parte delle autorità di almeno cinque paesi europei per presunta appropriazione indebita. Il “buco” che ha portato il Libano al default è di circa 72 miliardi di dollari. Il tasso d’inflazione mensile viaggia attorno al 200%: tra i più alti al mondo. La lira locale ha perso quasi tutto il suo valore, il che ha portato gli stipendi dei libanesi a poco più di carta straccia, distruggendo il potere d’acquisto delle famiglie. Nel 2019 un dollaro statunitense valeva 1.500 lire libanesi: oggi, al mercato nero, ne servono circa 30mila, nonostante il tasso ufficiale sia immutato. La conseguenza è che circa l’80% della popolazione libanese (dati Onu) vive al di sotto della soglia di povertà. Percentuale che sale all’89% tra i rifugiati siriani che vivono nel Paese. L’inviato delle Nazioni Unite aveva accusato il governo libanese, appena pochi mesi fa,  di aver provocato “uno scandaloso livello di disuguaglianza”: «L’inerzia del governo di fronte a questa crisi senza precedenti ha inflitto grande miseria alla popolazione, in particolare a bambini, donne, apolidi e persone con disabilità che erano già emarginate». Anche l’Unicef ha lanciato pochi giorni fa un allarme: “La crisi potrebbe avere gravi conseguenze sulla salute dei bambini”. Enormi le difficoltà anche a reperire medicinali e generi alimentari, compreso il pane. Una crisi acuita dalla guerra: oltre il 90% delle importazioni di grano arrivava da Russia e Ucraina. E il Libano avrebbe bisogno di circa 50.000 tonnellate di grano ogni mese per coprire la domanda di pane della nazione. I tempi di spedizione da altri paesi (Stati Uniti, Canada, India) sono assai più lunghi e più costosi: ma il Libano non ha più soldi. E lo spettro della carestia è dietro l’angolo.    

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