SOCIETÀ

Lo Sri Lanka nella morsa della crisi economica e sociale

Lo Sri Lanka sta affrontando la peggior crisi dalla sua indipendenza, ottenuta nel 1948 dalla Gran Bretagna.  Una crisi che non è soltanto economica, ma politica, sociale, alimentare, agricola, umanitaria, etnica. In un Paese, la grande isola a sud dell’India che fino al 1972 si chiamava Ceylon, con 22 milioni di abitanti, che si sta sgretolando senza che all’orizzonte riesca a comparire una qualche soluzione, una pur vaga via d’uscita. Le ragioni sono molte: la pandemia ha chiuso il rubinetto della sua entrata principale, il turismo. Ha anche precarizzato il lavoro, quasi azzerando le rimesse dall’estero. Soldi in cassa non ce ne sono più. Anche perché l’ex primo ministro (si è dimesso il mese scorso), Mahinda Rajapaksa, fratello maggiore del presidente Gotabaya Rajapaksa, aveva disposto alla fine del 2019 un taglio delle tasse che, alla prova dei fatti, si è rivelato insostenibile per l’economia. Lo Sri Lanka oggi è tecnicamente in default, perché non è riuscito a onorare i pagamenti delle cedole sui prestiti. Il rimborso di 7 miliardi di dollari, in scadenza nel 2022, è stato sospeso: entro il 2026 i miliardi da rimborsare saranno 25. Il debito estero ammonta a 51 miliardi di dollari. Il ministero delle Finanze ha detto che, a oggi, lo Sri Lanka ha soltanto 25 milioni di dollari di riserve estere utilizzabili. L’inflazione galoppa (+ 21,5% a marzo, + 33,8% ad aprile). Martedì il governo del nuovo primo ministro, Ranil Wickremesinghe, espressione marginale dell’opposizione (il suo partito, United National Party, ha un solo seggio in Parlamento), ha aumentato ancora il prezzo del carburante, sperando così di aumentare le riserve di cassa, mantenendo comunque il razionamento sugli acquisti: +20-24% la benzina, +35-38% il diesel (ma dallo scorso ottobre il prezzo della benzina è cresciuto del 259%, il diesel del 231%). Anche il prezzo dei trasporti, di conseguenza, aumenterà. E l’inflazione subirà una nuova, inevitabile, impennata, che andrà a colpire duramente la parte più povera della popolazione.

Da marzo la corrente elettrica arriva a singhiozzo. Le importazioni sono di fatto bloccate, proprio per l’impossibilità di procedere ai pagamenti. Manca il cibo, manca il gas per cucinare. I prezzi dei generi alimentari di prima necessità sono aumentati del 25% in pochi mesi, colpa anche, ma non soltanto, della guerra in Ucraina. Mancano, drammaticamente, anche i medicinali. Sugli scaffali delle farmacie non si trovano più i farmaci essenziali. Negli ospedali è ormai prassi rinviare gli interventi chirurgici per mancanza dei materiali primari. «Per molti pazienti è una condanna a morte virtuale», ha commentato il dottor Roshan Amaratunga, dell'ospedale oncologico di Apeksha, alla periferia della capitale, Colombo. E’ crollata perfino la produzione agricola locale, dopo che era stato disposto, nel maggio 2021, il divieto totale dell’uso dei fertilizzanti chimici. «Saremo il primo paese al mondo ad avere un’agricoltura completamente biologica», promettevano i fratelli Rajapaksa, l’uno presidente, l’altro primo ministro dello Sri Lanka. La decisione è stata poi parzialmente revocata lo scorso novembre, sull’onda delle proteste degli agricoltori, che hanno visto ridotti almeno del 30% i loro raccolti, stando alle stime più ottimistiche. Ma l’approvvigionamento dei fertilizzanti procede con estrema lentezza, complice anche la scarsa disponibilità di carburante, combinata con l’aumento dei prezzi. Così le  fattorie chiudono: «In queste condizioni non ha più senso coltivare», ha confessato un agricoltore ad Al Jazeera, raccontando di aver subìto un calo nella sua produzione di melanzane da 400 a 50 kg. Meglio star fermi che lavorare in perdita.

Violenza e proteste

Per tutto questo la popolazione è esasperata. E sono sempre più frequenti le proteste, anche violente, e non soltanto nella capitale. Il 6 maggio scorso il presidente Rajapaksa, dopo uno sciopero generale che ha portato alla chiusura temporanea di aziende, scuole e trasporti pubblici, ha deciso di dare più potere ai militari. Dichiarando uno stato d’emergenza nel quale si dispone “l’arresto dei manifestanti che bloccano le strade”, oltre consentire l’utilizzo di “proiettili veri” e a imporre il coprifuoco a livello nazionale. Il governo può anche sospendere le leggi, detenere persone e sequestrare proprietà. Il 9 maggio, nella capitale, c’è stato un violentissimo scontro tra migliaia di manifestanti pro e contro il governo, che si è concluso con 9 morti e oltre 300 feriti, tra veicoli dati alle fiamme e saccheggi. Tra le vittime c’è anche un deputato del Fronte popolare dello Sri Lanka (il partito al governo), ucciso assieme alla sua guardia del corpo privata. Gli oppositori chiedono a gran voce le dimissioni del presidente in carica, accusandolo di corruzione, di aver dissipato nel corso degli anni le ricchezze della nazione a favore dei suoi familiari. Un gruppo di studenti ha perfino tentato di assaltare il Parlamento nazionale, ma è stato respinto dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia. Il principale partito di opposizione, il Samagi Jana Balawegaya (SJB, socialdemocratici) che si è rifiutato di far parte del nuovo esecutivo («È chiaro che il nuovo primo ministro è controllato a distanza dal presidente», ha sostenuto un parlamentare del SBJ), ha presentato la scorsa settimana in Parlamento una mozione di sfiducia contro il presidente Rajapaksa, detto Gota, indicandolo come il responsabile dell’attuale crisi economica, per aver introdotto tagli fiscali populisti, per aver provocato il crollo dei raccolti imponendo il divieto di utilizzo dei fertilizzanti chimici, per aver utilizzato la pandemia per la militarizzazione del Paese, “promuovendo soluzioni non scientifiche” e stipulando accordi sfavorevoli per i vaccini. Mozione respinta con un ampio margine: 68 voti a favore,119 contrari.

Il clan Rajapaksa e la vendetta contro i tamil

La potente famiglia Rajapaksa è salita al potere alla fine della guerra civile, nel 2009, intestandosi il merito di aver sconfitto, dopo 26 anni, il gruppo militante separatista (definito organizzazione terroristica da Usa, Ue e altri 31 stati) Tigri di Liberazione del Tamil Elan (LTTE). Ma oggi, 13 anni dopo la fine del conflitto, costato oltre centomila vittime (pochi giorni fa la commemorazione), la riconciliazione resta un miraggio: la maggioranza buddista continua a vivere nel ricco sud, i tamil (in gran parte induisti) segregati e ancora oggi militarizzati nelle zone più arretrate, a nord e a est. Come resta ancora oggi in vigore il Prevention of Terrorism Act (PTA), approvato nel 1979, che un disegno di legge presentato lo scorso gennaio, anche in seguito alle pressioni dell’Onu dell’Unione Europea, punta a modificare. I tamil accusano il governo dello Sri Lanka di aver continuato a perpretrare, dopo la fine della guerra, terribili abusi nei loro confronti, una sorta di “vendetta postuma”, dai rapimenti alle torture, dalle detenzioni arbitrarie ai crimini sessuali. Nel febbraio 2022 Human Right Watch ha pubblicato un report sull’argomento, dall’emblematico titolo “In a Legal Black Hole”: «Da quando Gotabaya Rajapaksa ha vinto le elezioni presidenziali nel novembre 2019, la sua amministrazione ha utilizzato il PTA per prendere di mira gli oppositori politici e i membri della minoranza tamil e delle comunità musulmane», scrive HRW. «Nel frattempo, le autorità hanno minacciato le vittime di passate violazioni dei diritti umani, attivisti e avvocati per i diritti umani, giornalisti e membri di gruppi della società civile con il pretesto di contrastare il terrorismo. Dopo anni di critiche interne e internazionali, il 27 gennaio 2022 il governo dello Sri Lanka del presidente Gotabaya Rajapaksa ha pubblicato un disegno di legge per modificare il testo. Tuttavia, gli emendamenti proposti lasciano intatte le disposizioni della legge più spesso abusate e, se emanate, faranno ben poco per rendere il PTA conforme agli obblighi internazionali in materia di diritti umani». L’UNHRC ha approvato pochi mesi fa una risoluzione che censura il governo dello Sri Lanka per il trattamento riservato alle minoranze e per l’incapacità di indagare sulle atrocità commesse durante la guerra civile. Scrive New Frame, sito online no profit di giustizia sociale con sede a Johannesburg: «Mahinda e Gotabaya Rajapaksa, e altri leader dell'attuale amministrazione, sono stati più volte accusati di essere complici delle morti e delle sparizioni forzate di giornalisti, avvocati e attivisti politici». I fratelli Rajapaksa hanno sempre negato qualsiasi responsabilità.

Nella trappola della Cina

E non sembrano avere alcuna intenzione di fare un passo indietro, di mollare il potere. Nonostante un’endemica fragilità interna, nonostante i robusti investimenti cinesi (stimati in 12 miliardi di dollari fino al 2019), in quello che Asanga Abeyagoonasekera, analista geopolitico dello Sri Lanka e membro senior del think tank americano Millennium Project, ha definito una “trappola strategica”: «La Cina protegge lo Sri Lanka dalle critiche alla sua situazione in materia di diritti umani alle Nazioni Unite e favorisce un modello di governo autoritario e pesantemente militarizzato rispetto alla democrazia». Con l’India osservatore interessato, pronta a offrire un sostegno economico pur di allentare l’abbraccio tra Colombo e Pechino. Ma è evidente che la situazione non si risolverà se non con un intervento esterno. Ancora lo scorso mese il governo dello Sri Lanka aveva chiesto formalmente un intervento d’emergenza del Fondo Monetario Internazionale, ma le tensioni interne potrebbero rallentare l’arrivo degli aiuti. «E’ necessario attuare una strategia credibile e coerente per ripristinare la stabilità macroeconomica e l’importanza di reti di sicurezza sociale più forti per mitigare l’impatto negativo dell’attuale crisi economica sui poveri e sui vulnerabili», era scritto in una nota diffusa dall’FMI il mese scorso. Come dire: prima i fatti, poi parliamo di aiuti. Anche la Banca mondiale ha dichiarato che non prevede di fornire alcun nuovo finanziamento allo Sri Lanka «fino a quando non sarà definito un quadro di politica economica adeguato». Ed è probabilmente per questi motivi, per tentare di recuperare la fiducia degli organismi internazionali, che il premier Wickremesinghe ha assunto anche l’interim del ministero delle Finanze, annunciando che presenterà entro sei settimane un bilancio provvisorio che taglierà la spesa pubblica «fino all’osso». Basterà? Non è detto. Anche perché sei settimane, ammesso che si resti nei tempi promessi, sono lunghe da passare, soprattutto per i più poveri, per chi non ha soldi né cibo per sfamare la propria famiglia. E qualsiasi riforma economica porterà inevitabilmente ricadute sulle già precarie condizioni dei più poveri. L’inflazione annuale, ha già avvisato il premier, potrebbe arrivare presto al 40%. Al presidente Rajapaksa non resta che lanciare appelli, l’ultimo di poche ore fa: «Chiediamo urgentemente assistenza ai nostri amici nella comunità internazionale per rispondere alle esigenze immediate dello Sri Lanka».

Così chi può, e chi riesce, tenta la fuga. In barca, a bordo di pescherecci, verso il Tamil Nadu, la punta meridionale dell’India, che lo scorso anno già ospitava, nei 108 campi profughi allestiti, circa centomila rifugiati srilankesi, quasi tutti di etnia tamil. Ma non è una soluzione: l’India non ha una legislazione nazionale che regola l'ingresso e il soggiorno delle persone che richiedono asilo, e trovare una casa o un lavoro può diventare estremamente difficile. Perché tutti vengono considerati migranti illegali. New Delhi non ha mai firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951, tantomeno il protocollo sullo status dei rifugiati del 1967. La Marina dello Sri Lanka ha dichiarato, martedì scorso, di aver arrestato 67 persone che tentavano di fuggire illegalmente dalla costa nord-orientale del Paese: sembra che volessero arrivare in Australia.

 

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