CULTURA

Le origini del senso morale. Quali principi e valori nei bambini?

Quante volte al giorno ci chiediamo, distrattamente o meno, cosa sia giusto fare, o se un’azione che abbiamo portato a termine possa essere considerata una buona azione o anche, molto banalmente, come dobbiamo comportarci per comportarci bene?

I giudizi morali, la loro definizione, espressione e giustificazione sono oggetto di discussione filosofica da più di due millenni. Per tutto questo tempo, la filosofia morale si è spinta ad affrontare le questioni più disparate in questo senso. Se davvero conosciamo il bene, possiamo non perseguirlo? Un giudizio descrittivo può validarne uno prescrittivo? Una buona azione è tale quando è conforme a un codice di leggi ben definito, quando produce un effetto positivo sulla realtà o quando è originata da un’intenzione virtuosa?

I più celebri pensatori della storia si sono cimentati con questi e molti altri interrogativi analoghi, ma ogni tentativo di risposta ha portato con sé molte altre domande. Probabilmente, per chi sia anche lontanamente incuriosito dai grandi dilemmi della filosofia morale (perché l’ha studiata a scuola, svolge attività di ricerca accademica in questo campo o è semplicemente un fan della serie comedy The good place, forse uno dei prodotti di cultura pop a tema filosofico più riusciti dell’ultimo periodo) molte volte le domande sono persino più interessanti delle risposte.

Ma altrettanto interessante è chiedersi se e come sia possibile indagare con metodo scientifico alcune questioni tipicamente filosofiche come quelle che riguardano l’origine e lo sviluppo del senso morale negli esseri umani durante la crescita. Proprio tali argomenti sono oggetto di studio della psicologia morale, che affonda le sue radici nelle teorie elaborate da Jean Piaget e Lawrence Kohlberg i quali, nella seconda metà del Novecento, si domandarono come e quando i bambini arrivassero a sviluppare un senso di obbligo nei confronti di una norma morale. Le ricerche sperimentali che indagano la presenza e lo sviluppo del senso morale dei bambini continuano ancora oggi. Il professor Luca Surian, del Dipartimento di psicologia e scienze cognitive dell’università di Trento, conduce studi sull’argomento da più trent’anni. A lui abbiamo chiesto di raccontarci come viene approfondito il senso morale nell’ambito della psicologia dello sviluppo e quali sono le principali domande a cui si cerca di dare risposta.

Perché una buona azione è una buona azione?

“Attualmente, le più recenti linee di ricerca nel campo della psicologia morale sono incentrate nell’indagine del giudizio morale sia nell’età evolutiva che in quella adulta, con particolare attenzione all’analisi delle giustificazioni attribuite ai giudizi morali”, spiega Surian. “In altre parole, oggetto di studio della psicologia morale è la comprensione del perché le persone ritengono che una determinata opinione o azione sia moralmente corretta.

Fino alla fine degli anni Settanta, il modello più utilizzato dagli psicologi dello sviluppo per considerare l’evoluzione delle giustificazioni morali era quello delineato da Lawrence Kohlberg, il più celebre prosecutore degli studi di Piaget”, spiega Surian. “Secondo il modello Kohlbergiano, esistono tre livelli che caratterizzano l’evoluzione del ragionamento morale; il primo è quello preconvenzionale, tipico dei bambini tra i quattro e i dieci anni d’età, in cui si rispettano le regole per paura di ricevere una punizione in caso contrario, il secondo è il livello convenzionale, che viene raggiunto in età adulta o nell’adolescenza, in cui si rispettano determinate norme morali per la volontà di conformarsi a una identità di gruppo ed essere, in altre parole, “ben visti” dalla propria società di appartenenza, mentre il terzo livello, quello post-convenzionale, è quello che un soggetto raggiunge quando riconosce in una determinata regola un valore morale intrinseco, come quello che associamo, ad esempio, ai diritti umani.

Il primo a mettere parzialmente in discussione il modello definito da Kohlberg è stato lo psicologo Elliot Turiel, i cui studi hanno dimostrato che anche i bambini di tre o quattro anni sono capaci di manifestare giudizi post-convenzionali che prima di allora si credeva fossero propri solo dell’età adulta. Se ci riflettiamo un attimo, questo non ci sorprende del tutto. Pensiamo ad esempio a un bambino di quattro o cinque anni che sbatte i piedi per terra e urla indignato: “non è giusto!” facendo inconsapevolmente suo un principio estremamente astratto come quello di giustizia”.

Le linee più recenti della ricerca hanno addirittura riscontrato una competenza morale post-convenzionale in bambini che si trovavano tra il primo e il secondo anno di vita ed erano ancora incapaci di esprimersi bene a parole. Ad esempio, uno studio condotto dal professor Surian nel 2011 ha dimostrato che i bambini compresi tra i 12 e i 18 mesi d’età preferiscono assistere a situazioni in cui le risorse vengono distribuite in modo equo, piuttosto che in maniera sbilanciata.

“Naturalmente, questa tendenza nella scelta non può essere paragonata a un giudizio morale maturo e completo – commenta Surian – proprio perché un giudizio di questo tipo richiede la presenza di una giustificazione consapevole. Eppure, si può ipotizzare che questa precoce preferenza verso il comportamento imparziale costituisca una specie di “primo mattone” a partire dal quale, durante la crescita, sarà poi possibile costruire giudizi maturi”.

Il senso morale è innato o acquisito?

Sorge spontanea, allora, un’altra importante questione centrale nel dibattito contemporaneo: si può parlare di un fondamento morale innato, che sia in un certo senso “a priori” rispetto all’educazione culturale?

“Si tratta di un tema ampiamente dibattuto nella letteratura scientifica sull’argomento – conferma Surian – ma che va affrontato dopo aver chiarito il significato da attribuire al concetto di “innatismo”. Se con il termine “innato” vogliamo descrivere una facoltà “presente già alla nascita”, allora è opinione ormai condivisa, nell’ambito della psicologia morale, che sia da escludere la possibilità che i bambini appena nati siano provvisti di senso morale. Eppure, esiste anche un altro modo in cui possiamo parlare di “innato”, usando il termine con il significato di “non appreso”, analogamente a quanto fa Chomsky quando definisce il linguaggio come una capacità innata negli esseri umani. Il celebre linguista non intendeva infatti insinuare che gli esseri umani siano capaci di esprimersi a parole nel momento in cui vengono al mondo, bensì che essi siano dotati per natura di alcune competenze specifiche che li rendono in grado di acquisire le capacità linguistiche durante la crescita”.

Possiamo quindi immaginare qualcosa di analogo per quanto riguarda la morale: esistono alcune competenze “innate” – ovvero, “non apprese” – che permettono al bambino di acquisire la capacità di formulare giudizi morali man mano che diventa grande.

“Sia Piaget che Kohlberg avevano scartato l’idea che un bambino potesse acquisire un autentico senso morale tramite il solo processo di “condizionamento”, ovvero tramite un tradizionale percorso di apprendimento fatto di regole, rimproveri, punizioni e lodi”, spiega Surian. “Secondo questi studiosi, infatti, tali metodi di indottrinamento non bastano a produrre nei bambini un giudizio morale di alto valore, ma solo a fargli acquisire passivamente le norme e i principi che dominano nella cultura di riferimento. Al contrario, la loro ipotesi era che gli esseri umani fossero in grado di perfezionare attivamente le loro capacità morali ed elaborare autonomamente determinate nozioni morali tramite la riflessione e il ragionamento”.

Ebbene, le linee di ricerca più recenti aggiungono un ulteriore tassello a questo quadro teorico. “Alcuni studiosi fanno riferimento a un modello elaborato nel 2009 da Graham, Haidt, e Nosek chiamato Teoria dei fondamenti morali (Moral Foundation Theory), che individua cinque principi fondativi della morale umana, sostenendo che essi siano presenti negli esseri umani fin dai primissimi anni di vita, a prescindere dalla cultura di riferimento”.

I principi morali in questione hanno a che fare, in particolare, con la cura di chi è indifeso o bisognoso, con l’imparzialità e la giustizia nella distribuzione delle risorse, con il rispetto e l’obbedienza verso l’autorità, con la lealtà al gruppo di appartenenza e con la conservazione della “purezza” attraverso il rifiuto di compiere atti considerati moralmente riprovevoli ed evitare la “contaminazione” con sostanze, oggetti e persone considerati “impuri”.

“Le più recenti linee di ricerca sperimentale si occupano di rilevare e quantificare la presenza di tali principi in bambini di circa un anno e mezzo d’età”, racconta Surian. "Naturalmente, il principio più difficile da indagare sperimentalmente nei bambini è quello che riguarda la conservazione della purezza, per il quale non sono state finora raccolte evidenze scientifiche degne di nota”.

Limiti della ricerca e quesiti (ancora) senza risposta

Per quanto gli studi più recenti sui giudizi morali in età evolutiva abbiano dato risultati talvolta sorprendenti ed estremamente utili per avvicinarsi alla comprensione dei meccanismi psicologici alla base del senso morale negli esseri umani, non si può non tenere conto di alcuni fattori che limitano, di fatto, la ricerca in questo campo.

Come sottolinea il professor Surian, infatti, “quando si conducono ricerche sperimentali su bambini molto piccoli, specialmente su quelli in età prescolare, è difficile formulare ipotesi attendibili riguardo alle reali motivazioni alla base delle loro preferenze morali. Nel momento in cui osserviamo un bambino che mostra di preferire un comportamento equo rispetto a uno iniquo, è impossibile stabilire con certezza il perché di quella scelta; le evidenze a riguardo sono spesso molto deboli e interpretabili in diversi modi. Si tratta di un problema ancora aperto e che può essere in parte superato solo attraverso il progresso della ricerca scientifica e la continua raccolta di evidenze empiriche.

Inoltre, va ricordato che lo studio della psicologia morale è finalizzato alla comprensione non solo dei giudizi morali, ma anche dei comportamenti. Ebbene, è stato osservato che nonostante i bambini dimostrino di riconoscere determinati valori morali, spesso il loro comportamento non è coerente con i giudizi morali che esprimono. Sarebbe quindi interessante approfondire i processi cognitivi e sociali tramite i quali un individuo acquisisce progressivamente una maggiore coerenza, nel corso della sua vita, tra il comportamento e i principi morali di cui riconosce il valore. Si tratta di una domanda ancora senza risposta e che rappresenta, al momento, una frontiera ancora da esplorare”.

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