SOCIETÀ

Il gioco ambiguo della Serbia? Un ritorno alla Jugoslavia non allineata

Lo scoppio del conflitto in Ucraina ha rilanciato la Serbia al centro dell’attenzione mondiale. Belgrado si è trovata nell’occhio del ciclone dopo essersi smarcata dalla linea occidentale in tema di sanzioni, mantenendo uno status neutrale e ricevendo anche armamenti da parte della Cina. Nonostante l’esecutivo guidato dal presidente Aleksandar Vučić, leader del partito progressista serbo (Sns), si sia più volte dichiarato negli anni pro Europa e continui formalmente a portare avanti il processo di ammissione nell’Ue, la sua politica estera rimane ambigua. Da una parte si è sviluppato nel Paese un sentimento euroscettico, in seguito alle posizioni non sempre compatibili tra le istituzioni europee e quelle nazionali, distanza che rende complicato il dialogo con Bruxelles; dall’altra vediamo come, sebbene vi sia sempre stato uno stretto rapporto tra Serbia e Russia, dopo la dichiarazione del presidente Putin che poneva Donbass e Kosovo sullo stesso piano ci sia stato sconcerto in quella parte della stampa che storicamente ha sempre sostenuto la linea del Cremlino.

Che cosa vuole davvero la Serbia e qual è la sua reale forza? Per capire la realtà del Paese da un punto di vista economico abbiamo interpellato Patrizio Dei Tos, presidente della rappresentanza internazionale di Confindustria Serbia e imprenditore di lunga data nel settore del legno. Dopo le guerre degli anni Novanta la Serbia non è riuscita per lungo tempo a rinnovare la sua industria, spiega l’imprenditore: solo negli ultimi anni ha cercato di abbandonato un sistema che puntava sulla manodopera a basso costo e a forte impatto ambientale per avvicinarsi, grazie a tecnologia e know-how importati dall’estero, verso una produzione più sostenibile. C’è stata una crescita del Pil pro capite che ha indotto il settore pubblico ad allinearsi alle politiche economiche occidentali basate su dinamiche produttive high skilled. Infine le istituzioni serbe hanno facilitato e incoraggiato l’arrivo di investimenti esteri e di imprese straniere. I

n questa situazione, spiega Dei Tos, il ruolo economico giocato dall’Italia è ancora fondamentale, anche se la Cina ha superato il nostro Paese nel volume di scambi. La Cina appunto: negli ultimi anni la crescente presenza di Pechino nei Balcani occidentali ha suscitato preoccupazione nelle economie occidentali: il caso più clamoroso è stato  la costruzione in Montenegro di una autostrada, pagata con fondi europei, da parte di aziende cinesi.

La Serbia è diventata per la Cina il migliore alleato nei Balcani per lo sviluppo della Belt and Road Initiative, la cosiddetta “Nuova via della seta”, dove le grandi opere e le infrastrutture sono la chiave per avviare rapporti anche sul piano commerciale e politico. Ci sono però dei rischi: soprattutto non appare trasparente l’azione delle istituzioni serbe che approfittano dei finanziamenti cinesi a tasso zero o a fondo perduto. Un dato su tutti: “Il legame con Pechino vale il 20% del Pil della Serbia”, spiega l’imprenditore, che poi passa ad analizzare l’influenza economica della Russia sul governo di Belgrado. Sebbene gli scambi commerciali con Mosca rappresentino solo il 10% del Pil serbo, la dipendenza energetica dalla Russia è invece enorme: 81% del fabbisogno di gas e il 18% per il petrolio.

Il contratto per l’approvvigionamento energetico russo scadeva alla fine di maggio 2022, il che spiegherebbe la linea politica di Belgrado, impegnata a mantenere un ruolo neutrale e a smarcarsi dalle reazioni occidentali. L’obbiettivo del presidente Vučić è stato quello di non compromettere troppo i rapporti economici con l’Occidente (il 70% del Pil deriva pur sempre dagli scambi con l’Europa) e allo stesso tempo confermare la storica vicinanza con la Russia per rinnovare in modo molto favorevole un contratto energetico triennale. 

“Un’ambiguità che si riflette nella politica estera” spiega Jovo Bakic, sociologo politico dell’università di Belgrado, secondo il quale la posizione serba è ben diversa da quella esposta dalle istituzioni nelle occasioni ufficiali. Riguardo la partnership con l’Europa secondo Bakic “il peso e la posizione dell’Unione Europea oggi sono irrilevanti sul piano dell’opinione pubblica e, nonostante l’Ue e gli Usa siano a conoscenza del tipo di autoritarismo governativo che l’élite politica serba esercita in maniera crescente da oltre dieci anni, per non parlare dell’elevato grado di corruzione che attanaglia il sistema, i loro sforzi nella direzione di una maggiore integrazione della nazione nella sfera europea non contemplano ancora in nessun modo una seria politica di contrasto”. Piuttosto questi fenomeni vengono trattati come immutabili e congeniti. In questa prospettiva si è venuta quindi a creare una sorta di coincidenza tra le ambizioni politiche delle istituzioni serbe da un lato e di quelle europee dall’altro: le prime in cerca di una legittimazione politico-istituzionale attraverso il mantenimento di un interesse formale per il progetto europeo – una specie di “specchietto per le allodole” che secondo Bakic corrisponde più a sentimenti utilitaristici che valoriali –, le seconde interessate a tenere in qualche modo vivo il legame con Belgrado.

Sul fronte dei rapporti con la Russia è un dato di fatto le autorità serbe che sin dal 2014 abbiano criticato gli attacchi all’Ucraina, ma allo stesso tempo – osserva Bakic –  si mette in luce anche il fatto che “la stessa Nato, presente sull’altro lato della barricata, abbia infranto nel 1999 il diritto internazionale proprio in Serbia”, bombardandola ed imponendo pesanti sanzioni che ne hanno piegato l’economia. Allo stesso modo, avendole vissute in passato sotto il regime di Milosevic, il sociologo critica anche l’imposizione di sanzioni: “una pesante pena principalmente per la popolazione civile piuttosto che un’arma per bloccare la guerra”. Quindi un mix tra passato fraterno con la grande madre Russia e cultura del risentimento per le operazioni militari occidentali, rendono popolazione e il governo serbo piuttosto freddi nei confronti delle condanne internazionali nei confronti di Mosca.   

Ecco dunque spiegato perché il Paese continua a rimanere seduto su due sedie, non riuscendo però a trovare una vera e propria dimensione che lo collochi nello spazio politico-diplomatico. Se c’è comunque una prospettiva da considerare come improbabile, afferma Bakic, è che “la Serbia si appiattisca così tanto ai bisogni del Cremlino fino a diventare una sorta di Bielorussia dei Balcani”. Lo studioso però critica anche un sistema occidentale, rappresentato da Stati Uniti e Unione Europea, che dall’inizio della crisi bosniaca hanno avuto il “potere” di muovere le sorti dell’intera area balcanica ma – soprattutto l’Unione Europea –, non è stato in grado di sfruttare l’occasione per riuscire a portare la Serbia totalmente all’interno della propria sfera di influenza.

Nel corso degli anni, secondo Bakic, con le continue richieste della Commissione al governo di Belgrado e il continuo protrarsi dell’ingresso del Paese nell’Unione, si è creata una spaccatura interna e un senso generale di instabilità tali da non rendere possibile il collocamento pieno della Serbia all’interno di un sistema “delle false promesse”.  Anche nei confronti della Russia c’è però riluttanza, perché con le sue posizione spesso troppo assertive Mosca non appare come una vera alternativa a Bruxelles.  Forse, continua Bakic, la cosa migliore per i serbi in questo momento sarebbe di non appoggiare nessun “blocco”, concetto ormai considerato troppo obsoleto, quanto piuttosto schierarsi convintamente dalla parte del rispetto del diritto internazionale e della legalità, rifiutando ogni forma di supporto agli errori russi ma non scivolando allo stesso tempo nemmeno in una cieca russofobia. Una linea molto simile a quella del non allineamento, praticata dal Maresciallo Tito ai tempi della Guerra Fredda.

Il Bo Live ospita una serie di articoli scritti dai partecipanti al laboratorio di giornalismo sulla crisi ucraina, organizzato da Elena Calandri nell’ambito del corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali e diplomazia (Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali) sotto la supervisione di Marzio G. Mian.

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