SOCIETÀ

Elezioni in Bosnia: vince la moderazione

Due seggi su tre della presidenza ai riformisti: dalle elezioni di domenica scorsa in Bosnia-Erzegovina emerge un’indicazione che va in direzione opposta a quella che il più forte partito nazionalista serbo, l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), aveva tentato d’imporre negli ultimi anni, con il suo leader Mirolav Dodik, teorico della secessione, nonché fedelissimo alleato di Vladimir Putin. Non è un ribaltone, ma il segnale di una nuova moderazione politica, di dialogo, di inclusione, che a lungo termine potrebbe perfino prevalere sul nazionalismo etnico. Anche se i partiti che li rappresentano hanno conservato la maggioranza nei vari Parlamenti, dal nazionale a quelli regionali. 

È bene fare subito una premessa: quando si parla di Bosnia-Erzegovina bisogna dividere tutto per 3. Perché il sistema di governo, considerato uno dei più tortuosi labirinti giuridici al mondo, prevede che i Presidenti siano 3, all’interno di due distinte entità territoriali (la Federazione di Bosnia-Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, chiamata Repubblica Srpska), più un terzo territorio, molto più piccolo, chiamato distretto di Brčko. Tre presidenti in rappresentanza delle principali etnie che abitano la nazione, ciascuna con la sua lingua e con la sua religione: i bosgnacchi (in prevalenza musulmani), i croati (molti dei quali cattolici) e i serbi (perlopiù ortodossi). Una convivenza forzata e delicatissima, elaborata nel 1995 con gli Accordi di Dayton che mise fine alla tragica guerra etnica nata sulla scia della dissoluzione della ex Jugoslavia, e dopo la proclamazione dell’indipendenza della Bosnia, con protagonisti gli stessi croati, bosniaci e serbi. In quei tre anni, dal 1992 al 1995, le pagine della storia si macchiarono di indicibili crimini, condotti con incredibile ferocia contro le popolazioni civili, sempre su base etnico-religiosa. L’evento probabilmente più noto e tragico, ma certamente non l’unico, fu il massacro di Srebrenica. La complessa architettura legislativa elaborata all’epoca proprio per dare pari rappresentanza ai tre gruppi etnici e con l’obiettivo di cementare così la pace raggiunta, prevede che ogni decisione a livello nazionale (poi c’è anche un complesso sistema di governi e Parlamenti locali) debba essere condivisa dai tre Presidenti, ciascuno dei quali può opporre un veto qualora rilevi una potenziale discriminazione per il gruppo etnico che rappresenta.

Insormontabili divisioni etniche

Oggi, 27 anni dopo, quella “struttura” viene considerata responsabile di un immobilismo cronico, del tutto inadeguata per fronteggiare le esasperate divisioni su base etnica. Un equilibrio talmente fragile che ancora oggi il mantenimento della pace è affidato a un contingente dell’Unione Europea (Eufor). Mentre restano ampi i poteri dell’Alto Rappresentante per l’UE (ruolo attualmente ricoperto da Christian Schmidt), un’autorità istituita dagli stessi accordi di Dayton, una sorta di figura super partes in grado di agire concretamente, qualora le amministrazioni locali si dimostrassero incapaci o restie a operare nell’interesse collettivo. Proprio Schmidt è intervenuto appena terminate le ultime operazioni di voto annunciando di aver (unilateralmente) modificato la legge elettorale del Paese «per garantire la funzionalità e la tempestiva attuazione dei risultati elettorali». La mossa dell’Alto Rappresentante ha incassato il plauso degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea si è limitata a “prendere atto” della decisione. La delegazione dell’Ue, presente in Bosnia-Erzegovina per assistere alle operazioni di voto, si è poi detta “profondamente dispiaciuta” perché la questione non è stata risolta nel dialogo tra i partiti politici. Anche l’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), nel certificare la sostanziale correttezza delle operazioni di voto (al netto di diverse contestazioni e accuse reciproche di schede truccate), ha rimarcato come la politica bosniaca sia, in generale, intrisa di una “diffusa sfiducia nelle istituzioni pubbliche e di una retorica etnicamente divisiva”. «Sarà vitale riempire le lacune tra i gruppi etnici», ha dichiarato Stefan Schennach, capo della missione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

All’interno di questa complessa cornice istituzionale, e sempre dividendo il discorso per 3, spicca il risultato ottenuto domenica dal socialdemocratico Denis Bećirović (SDP), che ha sopravanzato a sorpresa Bakir Izetbegović, leader del partito nazionalista musulmano SDA, formazione che dall’indipendenza del Paese aveva ricoperto quasi sempre la presidenza bosgnacca (tranne per il mandato 2006-2010). Bećirović ha vinto con ampio margine, ottenendo il 57% dei voti, grazie al sostegno di 11 partiti dell’opposizione. «È tempo di una svolta positiva in Bosnia» ha detto, non appena è stata certa la sua vittoria. Al seggio croato bosniaco nella presidenza “tripartita” è stato invece confermato Željko Komšić, centrista, con il 54% dei voti, che ha sconfitto la rappresentante del partito nazionalista di destra HDZ. Komšić è un politico che vorrebbe voltare pagina, teorizzando uno stato che non segua più le divisioni etniche del paese. E proprio per questo è malvisto da molti croati bosniaci che lo considerano un presidente illegittimo. Sul punto è indispensabile un’altra precisazione: la legge elettorale della Federazione di Bosnia-Erzegovina consente ai residenti (al 70% bosgnacchi) di scegliere se votare per il seggio presidenziale bosgnacco o per quello croato bosniaco. I nazionalisti croati contestano che molti bosgnacchi abbiano scelto di votare per il presidente croato, alterando così la “radice etnica” del voto. Come dire: se fossero soltanto i croati bosniaci a votare per il seggio croato, i risultati sarebbero diversi. Ed è perciò che il presidente Komšić è stato dichiarato “persona non gradita” in alcune città nel sud del paese, dove il nazionalismo croato è assai radicato.

La variabile serbo bosniaca: secessione o stallo

E poi c’è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (la “Srpska”, o per brevità indicata con l’acronimo RS). Qui la sorpresa non c’è stata al voto (il partito nazionalista SNSD ha mantenuto la sua maggioranza, seppur con un margine non enorme, 52% delle preferenze), ma nella presentazione dei candidati: a ricoprire il ruolo di Presidente nazionale non sarà più il leader storico Milorad Dodik, ma la sua “delfina” Željka Cvijanović. Cambiano i ruoli (Dodik sarà presidente locale dell’entità serba bosniaca, proprio al posto di Cvijanović), ma non la sostanza: secessione, a ogni costo. Lo scorso dicembre il Parlamento locale della parte serba della Bosnia-Erzegovina aveva già votato per ritirare la loro partecipazione alle istituzioni nazionali (magistratura, sistema fiscale, forze armate), tracciando di fatto il percorso per raggiungere una separazione, un’autonomia: un proprio esercito, una propria magistratura, un proprio sistema fiscale. «La Bosnia-Erzegovina non è altro che una Repubblica di carta», aveva sostenuto Dodik all’epoca, intervenendo al Parlamento locale. Il piano è al momento sospeso, ma non il proposito. Resta la minaccia di uno strappo (magari sollecitato, alimentato da forze esterne) che rimetterebbe in discussione non soltanto l’assetto istituzionale della Bosnia, ma la sicurezza dell’intera area. Nei suoi propositi secessionisti Dodik può contare sull’esplicito sostegno di Russia, Serbia e Ungheria. Due settimane fa, in visita al Cremlino, il leader separatista aveva incassato i “complimenti” di Putin: «Per noi è importante avere amici come voi». Dodik l’ha ripagato sostenendo la validità dei referendum-farsa sull’annessione russa dei territori nell’Ucraina occupata, anche se soltanto a livello personale. L’ex presidente bosniaco Sefik Džaferović si è dichiarato invece contrario, al pari del presidente serbo Aleksandar Vucic. Un’azione evidentemente concertata, a rimarcare la politica del “doppio passo”: da un lato sostegno del diritto internazionale (e sia Bosnia sia Serbia aspirano formalmente a entrare a far parte dell’Unione Europea, con le domande “ferme” rispettivamente dal 2016 e dal 2014); dall’altro un legame indissolubile con Mosca, al punto da far dubitare sull’effettiva autonomia di movimento delle singole nazioni. Belgrado, per dire, ha sostenuto le diverse risoluzioni delle Nazioni Unite che condannavano l’invasione della Russia, ma ha sempre evitato di aderire alle sanzioni disposte dall’Unione Europea. Chi manovra davvero i fili?

Dunque i nazionalisti serbi bosniaci continueranno a perseguire i loro obiettivi, anche se dopo il voto di domenica la strada si fa più in salita. Che gli altri due seggi presidenziali siano occupati da politici moderati quantomeno rallenterà il progetto di secessione: e senza unanimità d’intenti è assai probabile che si andrà verso lo stallo, paralizzando l’attività politica, in un paese che deve fare i conti con profonda crisi economica (disoccupazione, povertà, inflazione sopra il 17%) che produce un aumento dell’illegalità. Come rileva il Corruption Perceptions Index, la Bosnia è il Paese peggiore in Europa e si trova al 110° posto nel mondo, su 180 paesi rilevati. Il che potrebbe ancor più esasperare gli animi tra i diversi gruppi etnici che convivono in Bosnia. Dove l’odio reciproco, il rancore, la diffidenza sono stati tutt’altro che risolti, a quasi trent’anni dalla fine della guerra.

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