UNIVERSITÀ E SCUOLA

Cellulari in classe, un'opera buffa annacquata dalla burocrazia

“L’utilizzo del telefono cellulare o di altri dispositivi di comunicazione elettronici da parte degli studenti è proibito”. Punto. Se ogni atto normativo riflettesse la metà della metà della chiarezza di questo comma, il nostro sarebbe un Paese migliore. Ma la riga succitata non è roba per noi: costituisce quasi interamente la legge appena approvata dall’Assemblea Nazionale francese. Quasi interamente, perché al dettato ultralaconico si aggiungono alcuni (pochi) incisi: la norma si applica in tutte le scuole (materne comprese) fino ai 15 anni di età (restano quindi esclusi i lycées e gli altri istituti del ciclo superiore), compresi gli spazi esterni alle scuole in cui si svolgano attività didattiche; non si applica agli studenti con disabilità che abbiano ricevuto una specifica autorizzazione; fa salvi “l’utilizzo pedagogico” e tutti i luoghi in cui il regolamento scolastico, eventualmente, consenta di usare lo smartphone.

La proposta di bandire completamente i cellulari da tutti gli spazi scolastici (e non solo, si badi bene, in aula durante le lezioni) era nel programma elettorale di Emmanuel Macron, ed è diventata un vessillo del ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer: un provvedimento, spiega la relazione del primo firmatario Richard Ferrand, per tutelare allievi, docenti, scuole da una serie di gravi problemi che derivano dall’uso dei telefoni in classe: “cyberbullismo”, “cybersessismo”, pornografia, ma anche (e qui si spiega il divieto fuori dall’aula) riduzione dell’attività fisica e della socialità (quella non virtuale, s’intende). L’uso del telefonino, rincara la relazione, è all’origine “di una parte importante della maleducazione e dei disordini negli istituti scolastici”, essendo correlato con reati come “danneggiamenti, furti, estorsioni”. Sull’onda dell’entusiasmo, il ministro Blanquer si era spinto a proporre di dotare le scuole di un armadietto personale, in cui ogni alunno avrebbe riposto il telefono all’arrivo e lo avrebbe recuperato al momento di tornare a casa. Proposta rispetto alla quale il leader del sindacato dei presidi aveva obiettato “un piccolo calcolo”, rilevando che solo nei collèges (ciclo 11 – 15 anni) la misura avrebbe richiesto un totale di circa 3 milioni di armadietti. Il bando totale ai cellulari rafforza un preesistente divieto inapplicato, tuttora in vigore ma limitato alle ore di lezione: per far sì che stavolta la disposizione non rimanga sulla carta, nella nuova legge è previsto che l’insegnante possa requisire l’apparecchio agli studenti che non rispettino la proibizione, per restituirlo, al più tardi alla fine dell’orario della giornata, ai genitori o allo stesso alunno. E in Italia, intanto, come si sta affrontando il problema?

Pochi lo sanno, ma i primi fulmini ministeriali sulla nocività del cellulare a scuola non colpivano adolescenti beccati a chattare o a passarsi un video sexy, ma erano scagliati contro l’indisciplina dei prof. Correva il 1998 quando Luigi Berlinguer, con la circolare 362 (tredici righe in tutto), riferiva di un’interrogazione parlamentare per denunciare “l’utilizzo del cosiddetto ‘telefonino’ da parte dei docenti anche durante le ore di lezione”. E severamente aggiungeva: “È chiaro che tali comportamenti (…) si traducono in una mancanza di rispetto nei confronti degli alunni e recano un obiettivo elemento di disturbo al corretto svolgimento delle ore di lezione che, per legge (…) non possono essere utilizzate – sia pure parzialmente – per attività personali dei docenti”.

Il primo intervento del Miur è del 1998, ma per denunciare l'uso del 'cosiddetto telefonino' da parte dei docenti

Passano nove anni, il “cosiddetto telefonino” dilaga nell’uso, e nella cultura, di milioni di italiani, e il fenomeno diventa di massa anche tra i ragazzi. I genitori spediscono gaiamente i figli di ogni età a scuola armati di device, e il ministro Giuseppe Fioroni emana sette pagine di linee guida, in gran parte dedicate all’utilizzo di “telefoni cellulari” (le virgolette, dure a morire, testimoniano più fastidio che incomprensione) durante l’attività didattica. Rispetto all’approccio aforistico-legalitario del predecessore, Fioroni sceglie un incipit moraleggiante: lamenta “un processo di progressiva caduta sia di una cultura del rispetto delle regole che della consapevolezza che la libertà dei singoli debba trovare un limite nella libertà degli altri”.

Richiamandosi al Dpr 249/98 (lo “Statuto delle studentesse e degli studenti”), il ministro ricorda che l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica rappresenta “un elemento di distrazione” ma soprattutto “una grave mancanza di rispetto” verso il docente (come in un western revisionista, buoni e cattivi ora sono invertiti) e configura “un’infrazione disciplinare sanzionabile”. Il ministro invita dunque ogni istituto a prevedere, nel proprio regolamento, “un repertorio di sanzioni volte a garantire, con il massimo rigore, l’effettivo rispetto delle regole”. Fioroni, peraltro, non manca di ricordare che il divieto “opera anche nei confronti del personale docente”. Unica eccezione, eventuali “esigenze di comunicazione (…) di particolare urgenza o gravità” tra alunno e famiglia, che potranno essere autorizzate dall’insegnante. Dunque, una linea di totale fermezza: cui forse non corrisponde altrettanto rigore da parte di molte scuole, sopraffatte dall’esplosione di smartphone, social network e mille altri tra quegli “elementi di distrazione” ipertecnologici. Rimangono, poi, molti problemi applicativi che la circolare Fioroni non scioglie: è possibile imporre ai ragazzi di depositare il telefono fino al termine delle lezioni? Oppure requisirglielo?

Mentre i presidi si arrovellano, passano altri otto anni, e si pubblica il dm 851/2015 (ministro Giannini) che contiene il “Piano nazionale per la scuola digitale”. La “azione numero 6” del Piano è riassunta in un acronimo rivoluzionario, BYOD, Bring Your Own Device: l’invito allo studente è quindi “porta (a scuola) il tuo dispositivo”. “La scuola digitale”, si legge, “deve aprirsi (…) a politiche per cui l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche sia possibile”. Cade un tabù: nelle ore di lezione il cellulare o il tablet non va più occultato sotto il banco, ma usato alla luce del sole. La filosofia condensata nel BYOD, infatti, implica “la coesistenza sugli stessi dispositivi personali di occasioni sia per la didattica, sia per la socialità” (impossibile, qui, non notare l’abisso tra il concetto francese di socialità, che rifugge il virtuale, e quello rappresentato dal BYOD). Dunque, nessuna distinzione: non tra ore di lezione e intervalli, non tra aula e corridoi, non tra apparecchi in dotazione alla scuola e dispositivi personali. Tutto mischiato, tutto integrato, in nome delle sterminate potenzialità didattiche dell’iPhone regalato da papà; senza dimenticare una frecciata a Fioroni, le cui precedenti disposizioni, si legge nel “Piano”, “hanno affrontato in modo troppo drastico la questione”. La filosofia BYOD trionfa, e vengono preannunciate “apposite linee guida” per promuoverla.

Nel 2007 l'uso del cellulare in aula diventa 'un'infrazione sanzionabile'. Nel 2015 si cambia idea: addio al divieto

Un salto di altri tre anni, ed eccoci all’inizio del 2018. Le linee guida latitano, ma il ministro Fedeli pubblica il “decalogo BYOD”: dieci punti, ciascuno dei quali enuncia una massima inconfutabile. “Ogni novità comporta cambiamenti”, “I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine”, “Il digitale trasforma gli ambienti di apprendimento”, eccetera. Nelle striminzitissime righe a illustrazione del “decalogo”, si invita ogni scuola ad adottare una PUA (Politica di Uso Accettabile) per le tecnologie digitali, perché “proibire l’uso dei dispositivi a scuola non è la soluzione”. Si riconosce che vanno regolamentati “i tempi dell’uso e del non uso”, cosicché la generazione BYOD impari a “mantenere separate le dimensioni del privato e del pubblico”.

Così, finché non interverrà l’ennesima circolare del Ministero e le scuole non si daranno regole chiare, il prossimo anno scolastico i ragazzi dell’era BYOD dovranno ingegnarsi ad applicare il decalogo così com’è: saltellando, durante un compito su Foscolo o un’interrogazione in fisica, tra un’occhiata agli Youtuber preferiti e un commento ai Sepolcri, una chiacchierata “social” sui nuovi occhiali della prof e un tutorial su Keplero. In attesa che qualcuno spieghi loro come si fa, con un cellulare in mano, a distinguere le dimensioni del privato e del pubblico.

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