CULTURA

Il '68: un altro episodio del trasformismo italiano

La seconda puntata del dialogo tra Paolo Pombeni, storico e politologo di Bologna, che ha da poco pubblicato Che cosa resta del ’68 e Fabrizio Tonello: Don Milani, l’individualismo, Zygmunt Bauman.

Parliamo di scuola: nel 1967, era stata pubblicata “Lettera a una professoressa” di don Milani.

Certo, lo abbiamo imparato tutti a memoria. Da un certo punto di vista diceva una cosa estremamente vera: chi non aveva alle spalle un retroterra culturale proprio a scuola non avrebbe imparato molto, perché la scuola non era organizzata per questo. Il libro era scritto molto bene, anche se ogni tanto c’erano dei passaggi un po’ sui generis. Soprattutto però c’era quello che tutti vorrebbero: un maestro che si identifica con il destino dei suoi allievi. Il problema qual è? Che oggi, con il senno di poi, la situazione è ancora peggiore. 

Dici davvero?

Nella scuola lo posso testimoniare. Oggi un bambino che non ha una famiglia dietro di sé a scuola è distrutto, perché la scuola non può dargli nulla. Nell’800 da questo punto di vista si stava meglio, perché la scuola era capace di tirare su quei pochi che prendeva. Oggi questo non esiste più. Anche quando mia figlia è andata a scuola i professori ci hanno detto chiaramente che avrebbero dovuto contare anche sul nostro aiuto di genitori. Chi purtroppo non ha questa possibilità è un uomo morto. Questa distruzione della scuola come momento di riscatto sociale è un problema molto grosso; certo era un riscatto borghese, ma comunque un riscatto.  Pensa solo alle lingue straniere: sono fondamentali ma oggi la nostra scuola non è in grado di insegnarle. I genitori che possono pagano i viaggi all’estero dei figli o un insegnante madrelingua, ma questo se ci pensiamo è profondamente ingiusto. Il problema non è solo il reddito, ma il livello culturale delle famiglie.

Abbiamo visto i prodromi di quello che è accaduto in quella primavera di cinquant’anni fa, adesso vorrei parlare di ciò che è avvenuto dopo. Ho sempre trovato curioso che l’Italia abbia avuto il ‘68 più lungo di tutti: negli Stati Uniti è finito praticamente due minuti dopo, in Francia ci furono le elezioni a giugno, in Germania una stagione d terrorismo mentre gli inglesi… ebbero i Sex Pistols. In Italia invece ci sono state le lotte operaie e poi il terrorismo, un lungo ciclo di trasformazione del Paese. Perché, secondo te?

L’Italia è stata il Paese che apparentemente si è atteggiato a recepire il ’68, senza però in realtà fare niente. Pensa alla riforma universitaria: i francesi dopo il ’68 hanno cambiato l’università, come per certi versi i tedeschi. In Italia non è stato toccato niente.

Si è gonfiato l’esistente.

Esatto, si sono accontentati di queste cose alla Masaniello, come gli esami più facili: il tutto però tutto all’italiana, senza una norma scritta, e prima della riforma sono passati un sacco di anni. Anche a livello politico non ci fu questo ricambio delle classi dirigenti come negli altri paesi. Altrove la circolazione delle élitesè un po’ più robusta, mentre da noi avviene soltanto attraverso terremoti, come ad esempio la fine del fascismo. Ma non c’è quel fenomeno che ha salvato gli inglesi (ma anche gli americani) da tante rivoluzioni, che è la capacità di un lento rinnovamento delle élites. Anche lì non vanno creati miti, ma non c’è un sistema come il nostro, in cui le nuove generazioni non riescono mai ad entrare.

In Inghilterra e negli Stati Uniti gli anni Settanta sono quelli in cui si prepara e infine si avvia la grande controrivoluzione neoliberista, con la Thatcher nel 1978 e Reagan nel 1980.

In Italia non c’è stata nessuna controrivoluzione: c’è semplicemente stato questo tentativo di inglobare tutto. La Thatcher fu per certi versi brutale, nello scontro con i minatori ma anche con la stretta sulle università. In Italia tutto questo è mancato perché alla fine è prevalso sempre l’ atteggiamento del non farsi del male a vicenda, dove tutti sono interessati a che non avvenga un grande cambiamento. Se vedi la storia dei partiti italiani, fino al 1994 non c’è stato un grande ricambio. E Moro, che è l’unico dei democristiani a preoccuparsi del 1968, ad andare a parlare con i giovani per capire, viene preso per un rimbambito, messo fuori dai giochi dal suo partito, mentre il PCI fa fondamentalmente lo stesso. L’unico partito che ha una vera apertura è lo PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), un partito di minoranza assoluta.

In Italia la rivoluzione non si fa mai…

Sì, c’è il trasformismo. Io sinceramente preferisco le riforme fatte pian pianino, ma in Italia non si voleva neanche quello, questo è il problema. Poi bisogna ricordare che l’esplosione del terrorismo tagliò fuori qualsiasi possibilità di sviluppo; gli anni di piombo sono stati la nostra sciagura: a quel punto non si poteva fare più niente, a parte schierarsi da una parte o dall’altra. Del resto schierarsi con queltipo di rivoluzione sarebbe stato una follia, e questo pesò in maniera estremamente negativa sull’Italia, perché bloccò di nuovo ogni possibilità di una seria revisione del sistema. Ma questo credo sia proprio un nostro problema strutturale: non siamo capaci di fare una riforma del sistema in progress, finché non arriva qualcuno che butta giù tutto.

Guardando da un’ottica di lungo periodo pensi che questo sia legato alla storica debolezza della borghesia italiana o pensi che ci sia qualcos’altro? 

Penso che derivi dal fatto che questo era un Paese, se posso esprimermi così, molto feudalizzato, in cui c’erano i cattolici, i laici, le sinistre: ciascuno con il suo mondo. Io ho vissuto l’ultima fase di questo sistema fatto a steccati, in cui un ragazzo che veniva dal mondo cattolico leggeva libri diversi, guardava film diversi, partecipava a circuiti sociali diversi rispetto ad esempio a un liberale o a un socialista. E fondamentalmente per una forma di pace sociale c’era una specie di accordo nel non mettere in discussione le parrocchie. Quando però le parrocchie si sono distrutte da sole, non si è saputo come ricostruire un minimo di identità nazionale.

Un po’ come è successo, sull’altro versante, con le case del popolo. 

Sì, io intendo parrocchie in senso generale, non solo nel senso di quelle cattoliche: anche quelle dei liberali, dei socialisti, dei massoni… Eravamo un paese tutto formato per ‘couche sociale’, come direbbero i francesi, e questo nella nostra storia ci ha impedito di riuscire a costruire un minimo di identità nazionale. Anche nei percorsi personali e nelle carriere, se ci pensi. La storia della televisione italiana da questo punto di vista è emblematica: iniziano i democristiani, poi nascono gli altri canali e vengono dati ai socialisti e ai comunisti. Si tratta però di filiere separate: non c’è un democristiano promosso dai socialisti, o viceversa; ciascuno fa carriera all’interno del suo mondo, con rarissime le eccezioni. Anche nel mondo accademico funzionava così. Questa è stata la cosa che ha un po’ distrutto l’Italia. Del resto quando questo sistema è venuto meno è stata la giungla: adesso chi arriva per primo mette su il suo, mentre almeno una volta c’era una filiera a cui rispondere. Nella fase buona anzi, siccome c’era competizione tra questi gruppi, ciascuno cercava di evitare di mandare avanti persone non all’altezza. 

Una caratteristica abbastanza unica del ‘68 è che abbiamo vissuto all’ombra di questi avvenimenti per mezzo secolo. Dalla controrivoluzione all’ex presidente francese Sarkozy, e alle polemiche di Renzi contro la “vecchia sinistra”, è come se tutto avesse come punto di riferimento lo spettro del ‘68.

Certo, e questo è un altro degli aspetti della ‘vittoria facile’ del ’68: anche chi non lo ha fatto si presenta come erede o come avversario di quel periodo, che è passato nell’immaginario collettivo come un grande momento della storia. Anche se poi non è detto che tutti i cambiamenti vengano da lì. Noi non ci immaginavamo nemmeno cose come Internet o i telefonini, che hanno rivoluzionato le nostre vite; anche lo storico Niall Ferguson scrive che la vera rivoluzione inizia nel 1973 con lo shock petrolifero, i progressi dell’informatica e le scoperte sul DNA: una serie di cambiamenti simbolici che comunque non hanno nulla a che fare con il ’68.

Oggi si parla molto di rivoluzioni scientifiche, ma c’è una solidità, una durezza profonda delle strutture sociali e politiche, che sono importanti anche quando non lo ricordiamo perché siamo troppo occupati a farci i selfie.

C’è un misto di queste cose; da un certo punto di vista il mondo è sempre uguale a se stesso, altrimenti non potremmo leggere Platone. Ma d’altro canto è vero che indubbiamente alcuni meccanismi tecnologici hanno cambiato il nostro modo di fare. Aveva ragione Umberto Eco: oggi scrivere con il computer è una cosa assolutamente diversa dal farlo a mano o con la macchina da scrivere. Quando nel gennaio 1972 ho vinto la borsa di studio ero uno dei pochissimi a scrivere direttamente con la macchina da scrivere, perché avevo imparato a farlo nella redazione del Regno. Una volta si viaggiava per consultare dei libri, e se si dimenticava o si sbagliava una citazione era un dramma, ma era anche una forma di arricchimento culturale e sociale, perché così si conoscevano anche nuovi ambienti e colleghi. Oggi con internet dalla nostra camera entriamo dappertutto e siamo capaci di reperire qualunque informazione. 

Ci avviamo alla conclusione di questa nostra chiacchierata,e volevo ancora chiederti una cosa. Ha avuto uno straordinario successo negli ultimi anni, soprattutto a sinistra, la tesi di Zygmunt Bauman sulla “modernità liquida”, senza più punti di riferimento. Io al contrario ho l’impressione di un mondo sempre più rigido e fossilizzato dentro strutture estremamente costrittive e invasive. Tu che ne pensi?

Su questo punto sono assolutamente d’accordo con te. Io questo mondo liquido non lo vedo, vedo anzi che siamo sempre più portati a chiuderci nel nostro privato, in questa illusione di poter disporre gratuitamente del mondo. Ma in realtà non è così. Solo che una volta disporre del mondo era una fatica e quindi una conquista, mentre oggi si crede che basti accendere la TV o guardare in internet. In realtà abbiamo perso non i punti di riferimento, ma la capacità di sentirci parte per davvero di una comunità di destini, come diceva Weber. Ci illudiamo di essere tutti un pezzo di una grande comunità virtuale, mentre in realtà siamo prigionieri di un’enclave molto, molto ridotta.

Una cosa che colpisce leggendo il tuo libro è proprio questo accento che metti sull’individualismo. In realtà io ho l’impressione che, almeno per tutti gli anni Settanta, il ’68 non abbia portato con sé usa ventata di individualismo: casomai è stato il trionfo dei movimenti collettivi che erano anche momenti di grande felicità individuale.

Paradossalmente secondo me è stato un collettivismo fatto per esaltare l’individualismo, in cui ciascuno poteva sentirsi padrone del mondo. Ma questa idea di essere semplicemente un pezzo di un discorso più complesso, secondo me in fondo è stata una delle grandi conquiste di quella che oggi chiamiamo democrazia. L’idea cioè che ciascuno ha un senso per quello che può dare agli altri. Questo è andato distrutto. Individualismo invece significa che noi possiamo stare insieme, ma solo fino a quando ciascuno si sente appagato da se stesso. Lo vedo un po’ nei ragazzi di oggi, nella loro difficoltà a giocare insieme. Stare insieme non significa solo stare nella stessa stanza. Questo spirito individualista è nato perché giustamente anche il singolo voleva contare, c’è stata giustamente un riconquista della propria individualità. Poi però questa individualità è finita per chiudersi in se stessa, invece di crescere e di trovare – come dire – un’armonizzazione con il mondo.

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