SOCIETÀ

Il nuovo disordine mondiale di Putin e Trump

Alla fine osservatori e analisti si sono concentrati soprattutto sul Russiagate e sulla presunta gaffe nel corso della conferenza stampa, arrivando in alcuni casi a parlare di tradimento da parte del presidente americano. Sta di fatto che a molti l’incontro con Putin a Helsinki è parso il vero cuore del recente viaggio europeo di Donald Trump. Un sorta di nuova Jalta per la spartizione del mondo – in particolare dell’Europa – senza che, almeno per ora, ci sia ancora stata una guerra mondiale? Antonio Varsori, storico e docente di relazioni internazionali presso l’università di Padova, non è d’accordo: “Banalmente non siamo più nel 1945, oggi il mondo è molto diverso”.

Perché professor Varsori?

“A Jalta c’erano effettivamente due superpotenze, o meglio una superpotenza – gli Stati Uniti – e una grande potenza, l’Unione Sovietica, mentre l’Impero britannico era già in fase di declino. Il mondo attuale è più complicato; ci sono più attori, alcuni dei quali anche più forti della Federazione russa: la Repubblica Popolare Cinese su tutti, che non è più solo una grande potenza economica, poi l’india e tutta una serie di potenze medie ma con margini di autonomia abbastanza forti. Per questo l’ipotesi di una nuova spartizione suscita perplessità: ci possono essere accordi per gestire singole parti del mondo, ma non mi pare più possibile che oggi gli altri siano disponibili ad accettare in maniera passiva le scelte russo-americane”.

A Jalta c’erano effettivamente due superpotenze... il mondo attuale è più complicato: ci sono più attori, la Cina su tutti

E la Nato in questo che ruolo ha? Pare che Trump abbia addirittura minacciato di abbandonarla.

“Prima di tutto sappiamo che le posizioni di Trump possono essere molto ondivaghe: spesso sono state smentite o addirittura ribaltate nel giro di breve tempo. Pensiamo solo alla Corea del Nord: fino a un anno fa si temeva addirittura uno scontro nucleare, poi invece Trump e Kim Jong-un si sono incontrati e stretti la mano con bei sorrisi. Da parte mia ho sempre avuto la sensazione che l’ambito che interessa più al presidente americano sia quello economico-commerciale, e qui i competitor sono da un lato la Cina e dall’altro l’Unione europea. Al contrario della Russia, con la quale pure possono esserci divergenze sulla gestione di alcuni dossier, come abbiamo visto in Siria e nell’atteggiamento nei confronti dell’Iran. Per quanto riguarda il futuro dell’alleanza atlantica, credo che anche in questo caso la vera questione sia quella economico-finanziaria. Del resto fin dai tempi di Eisenhower tutti i presidenti americani hanno ripetuto che nella Nato c’è un problema di burden sharing, di condivisione degli oneri. La sensazione è che se gli europei decidessero di contribuire maggiormente l’atteggiamento di Trump sarebbe diverso”.

L’Ue oggi è davvero il “nemico” principale per questa amministrazione americana?

“Dal punto di vista di uno storico gli Stati Uniti hanno sempre ritenuto le Comunità europee – prima ancora dell’avvento dell’Ue – fondamentalmente dei competitor commerciali, per molti decenni gli unici accanto al Giappone. Non dimentichiamo poi che Europa e Giappone hanno fatto per molto tempo politiche protezionistiche, ad esempio nel settore dell’agricoltura. Per anni gli Usa hanno accettato la situazione, mettendo sull’altro piatto della bilancio la stabilità politica europea, ma quando la guerra fredda è finita molte cose sono cambiate. All’inizio sia Europa che Stati Uniti hanno accettato la logica della globalizzazione, che imponeva a tutti mercati sempre più aperti, ma con il ritorno delle tendenze protezionistiche è chiaro che l’Ue torna un rivale, così come è normale che il principale obiettivo sia la Germania, vista al suo interno come il Paese più influente e il principale esportatore. ‘Nemico’ è però un termine troppo forte, ad uso soprattutto dell’opinione pubblica interna. Trump in questo senso rappresenta una classica visione isolazionistica: il suo America first, ‘pensiamo anzitutto a noi’, incarna una delle fasi ricorrenti della politica americana; un po’ come negli anni ‘20 e ’30, fatte le debite proporzioni”.

Tutti i presidenti americani hanno ripetuto che nella Nato c’è un problema di burden sharing, condivisione degli oneri

Brexit, attacchi dalle principali potenze militari, forti tensioni interne: l’Unione europea riuscirà a superare questo momento? Cosa deve fare?

“L’unica cosa che al momento si può dire è che l’Ue sta vivendo una delle sue fasi di maggiore difficoltà. Al di là di tutto ci sono alcune debolezze di fondo, che potrebbero essere anche temporanee. La prima non riguarda solo l’Europa, ed è questo divario tra élites e una parte consistente degli elettorati, come risulta abbastanza chiaro dalle ultime tornate di elezioni. Collegata a questa c’è poi un’altra questione; per molti decenni il processo di costruzione europea si è basato su accordo non scritto: gli elettorati accettavano quanto deciso dalle classi dirigenti perché queste riuscivano ad assicurare pace, crescita, stabilità sociale e sistemi di welfare (anche se questi poi non sempre dipendevano direttamente dall’Europa). Tutto questo è stato messo in discussione dopo la crisi del 2007-8, quando la fiducia è crollata. Se effettivamente l’Europa, non solo la Germania, riesce a riprendere la strada della crescita e a superare alcune contraddizioni globalizzazione, come ad esempio l’instabilità dei rapporti di lavoro, allora può esserci un ritorno di fiducia e un rafforzamento dei gruppi dirigenti, i quali potranno fare scelte anche in altri ambiti, ad esempio nel senso di una vera difesa europea. Altrimenti sarà molto difficile per l’Ue superare indenne la fase attuale”.

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