SOCIETÀ

Decreto Dignità, verso il neocorporativismo del Terzo Millennio?

Ieri (giovedì 2 agosto, ndr) alle undici di sera, la Camera ha dato il primo via libera al Decreto Dignità, che adesso passa al Senato.

Oggi, sui giornali continua la levata di scudi di tutte le parti sociali. 

Da un lato, i datori di lavoro (industriali, artigiani, e delle altre categorie) a dire che le nuove regole saranno il colpo di grazia per molte imprese e che porteranno alla perdita di migliaia di posti di lavoro (4.500 solo in Veneto, secondo le stime di Veneto Lavoro).

Dall’altro, una parte del sindacato che oscilla tra il dire che si tratta di “misure condivisibili, ma senza coraggio” e fare un affondo contro la reintroduzione dei voucherconsiderati “strumento antitetico rispetto ad ogni politica di qualificazione e dignità del lavoro”.

Si tratta di difese corporative fondate su basi ideologiche (insomma, un modo per ribadire il proprio ruolo di parte sociale e reclamare pratiche di regolazione in stile neocorporativismo del Terzo Millennio) o siamo di fronte a manifestazione di saggio pragmatismo, che ciascuno interpreta dalla propria prospettiva?

Partiamo dai contenuti che riguardano il lavoro

È confermato che la durata massima del contratto a termine scende da tre a due anni e che il numero massimo delle proroghe passa a 4 (erano 5). Le causali nel contratto sono reintrodotte, ma solo dopo i primi 12 mesi di contratto. In parallelo, è confermato, lo sconto sui contributi per le aziende che assumono con un contratto stabile lavoratori con meno di 35 anni.

Nuova vita anche per i voucher, che potranno essere utilizzati non più solo dalle aziende agricole, ma anche da quelle alberghiere (purché piccole, sia chiaro!), per retribuire il lavoro di pensionati, disoccupati, studenti fino a 25 anni e percettori di forme di sostegno al reddito, con durata massima che sale da tre a dieci giorni.

Non c’è nulla di ideologico nelle parole dei datori di lavoro, quando dicono che in uno scenario economico globale ancora molto incerto (e con la delicatissima partita della Guerra dei Dazi, che non si capisce ancora quanti effetti negativi produrrà, come ha ben scritto Roberto Antonietti su queste colonne), l’irrigidimento delle regole sul mercato del lavoro sarà un problema per le imprese e un boomerang per i lavoratori. Le cose stanno veramente così e se i datori di lavoro non assumono con orizzonte indeterminato è perché (in generale) non hanno visibilità nemmeno su quello che succederà nei prossimi mesi e sanno di essere in balìa di eventi sovranazionali e incontrollabili.

Non c’è nulla di ideologico nelle parole del sindacato, quando reclama regole che riducano la “flessibilità sulle spalle dei lavoratori” e diano loro maggiori garanzie di stabilità occupazionale. Non esiste più il sindacato delle Eroiche sconfitte descritto da Miriam A. Golden. Il sindacato ha piena consapevolezza che la precarietà impedisce ai lavoratori di consolidare competenze qualificate, perché nessun datore di lavoro si farà carico di investire nella formazione di persone che oggi sono qui e domani vanno da un’altra parte (prima che l’investimento in formazione dia i suoi frutti: è un esempio di doppia esternalità). Le cose stanno veramente così e le cosiddette boundaryless career, cioè il fatto di passare da un’azienda all’altra con una certa frequenza, è un’opportunità solo per i lavoratori forti e già qualificati. Per tutti gli altri (i meno qualificati e i più maturi), invece, sono un’autentica condanna. Prendendo a prestito un esilarante passaggio di Buongiorno pigrizia di Corinne Maier, la precarietà per questi lavoratori “è un po’ come cambiare partner due volte l’anno: a vent’anni la cosa può avere il suo fascino, ma, con il passare del tempo, finisce per diventare molto deprimente”. Impossibile dar torto, perché questo segmento di lavoratori rischia di essere incastrato in un doppia polarizzazione: saranno marginalizzati perché non hanno le competenze giuste, e nessuno si preoccupa di formarli e aggiornarli; saranno esclusi perché hanno troppi pochi anni di lavoro davanti a sé e nessuno ha convenienza a investire nella loro formazione (è un problema di pay back period degli investimenti in formazione).

Ma allora, tutti (governo incluso) sono pragmatici e tutti hanno fondate ragioni a supporto delle loro proposte, ma alla fine tutti dicono il contrario degli altri e non se ne viene fuori.

Dove sta l’inghippo? 

A me pare ci siano due elementi che vengono ignorati.

Primo: aumentare (e non ridurre) le differenze tra gli strumenti contrattuali

Qualche osservatore ha fatto notare che la diffusione dei contratti a termine in Italia è in linea con la medie dell’Unione Europea: 11,8%a fronte dell’11,3%.

La memoria scritta di Sebastiano B. Caruso alle Commissioni VI (Finanze) e XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, ci aiuta a fare luce sulla reale portata della proposta legislativa.

Come è concepito oggi, il Decreto Dignità appare:

a) sfocato, perché i contratti a termine sono i meno instabilie quindi non avevano bisogno di maggiori tutele;

b) depotenziato, perché con l’utilizzo della tecnica del divieto e della sanzione(introduzione di vincoli e limiti) ci si illude di poter conformare (anche eticamente) i comportamenti degli operatori economici, ma alla fine si rischia solo l’irrilevanza sociale e l’ineffettività giuridica in forma di prassi elusive;

c) con effetti collaterali, perché si rischia di favorire i contratti più brevi, non ci sono efficaci incentivi ai contratti più lunghie si scoraggia il contratto psicologico tra datori di lavoro e lavoratori.

Se proprio si vuole riformare il contratto a termine e si vogliono riattivare i voucher va preso in mano anche il contratto a tutele crescenti

Pragmaticamente (e non ideologicamente) va riconosciuto che la quasi completa liberalizzazione del contratto a termine avvenuta nel 2014 (con il ministro Poletti) trovava una spiegazione congiunturale: si doveva dare uno stimolo al mercato del lavoro prima della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, innescando una ripresa occupazionale a qualunque costo. 

Oggi, governo e parti sociali dovrebbero guardarsi negli occhi e chiedersi se la riforma estemporanea del 2014, che aveva senso come manovra congiunturale di anticipo, oggi assolva ancora a questo compito.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di creare un portafoglio di alternative contrattuali che rispondono a bisogni differenti e che rappresentano soluzioni realmente diverse (sul piano economico e organizzativo).

Difficile non riconoscere che prima del Decreto Dignità i confini tra il contratto a termine e il contratto a tutele crescenti erano un po’ sfumati.

Secondo: reclamare politiche attive per il lavoro ispirate al pragmatismo

Non c’è rischio di ritorno al welfare assistenziale che tenga: senza politiche attive per il lavoro, il Decreto Dignità non è solo sfocato,depotenziato con effetti collaterali: è dannoso per i lavoratori e irrispettoso nei confronti dei datori di lavoro. Le ragioni a sostegno di questa affermazione sono già state ben descritte su queste colonne in Cosa non va nel Decreto dignità (oltre al nome)

Qui è sufficiente aggiungere il comunicato stampa di ieri 2 agosto, diffuso da Elena Donazzan, assessore al Lavoro della Regione Veneto e che già dalle prime righe va nella giusta direzione: “Nel dibattito sul lavoro a termine, è giusto sostenere che il contratto a tempo determinato debba costare di più, ma questa è solo una parte della soluzione. Il punto fondamentale resta quello di garantire servizi di ricollocazione efficaci per chi si trova nella fase di transizione tra un lavoro e un altro”.

Anche su questo tema, non c’è spazio per l’ideologia: tutto e solo pragmatismo (illuminato).

 

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