SOCIETÀ

Quale futuro per l’Europa? Una rivoluzione copernicana nei paradigmi culturali

Jean Monnet, il padre dell’Europa comunitaria, nella sua autobiografia scriveva: "Ho sempre pensato che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e che sarebbe stata la somma delle soluzioni che si sarebbero trovate per queste crisi". Nei suoi settant’anni di storia l’integrazione europea ha attraversato numerose crisi, uscendone finora rafforzata. Mai come oggi, tuttavia, ha dovuto affrontare difficoltà tali da mettere a rischio la sua stessa esistenza e i risultati conseguiti con l’integrazione (la pace sul continente, il consolidamento della democrazia, un livello di sviluppo tra i più alti nel mondo). L’Europa sta attraversando una lunga crisi, non solo economica e migratoria, ma anche esistenziale che investe la natura stessa dell’Unione Europea, il suo ubi consistam, le sue finalità. Il caso greco, con il proposito di esclusione dall’euro, e la volontà espressa da leader euroscettici di far uscire il proprio paese dalla moneta unica hanno compromesso il principio di indissolubilità dell’unione monetaria, già minacciata dalla crescita degli squilibri economici e territoriali. La Brexit ha minato l’idea della irreversibilità dell’appartenenza all’UE. Il drammatico flusso di immigrati ha messo in discussione il principio della libera circolazione delle persone, una delle quattro libertà di circolazione garantite dai trattati; i confini aperti non rappresentano più una conquista di libertà, ma generano insicurezza. Il terrorismo ha alimentato la paura dell’altro, del diverso e favorito la reazione nazionalistica e xenofoba di chiusura verso l’esterno. Le crisi internazionali hanno confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, la debolezza della politica estera dell’UE, il suo scarso peso sulla scena mondiale, la sua vulnerabilità di fronte alle minacce globali alla sicurezza.

Ne è seguito un declino dell’attrattività dell’UE presso l’opinione pubblica che è passata da un consenso piuttosto esteso, anche se generico, poco informato e scarsamente motivato (il “consenso permissivo” tipico dei primi decenni dell’integrazione, cioè un europeismo diffuso ma passivo, quando l’integrazione poneva obiettivi limitati e non richiedeva ai cittadini costi e sacrifici, un consenso spontaneo di popoli stanchi della guerra e che istintivamente vedevano nell’unità del continente la garanzia di pace, di democrazia, di superamento degli ultimi totalitarismi sopravvissuti al conflitto mondiale), a una forma di disaffezione che talora è diventata rifiuto dell’integrazione.

Il mutamento di opinione è iniziato dopo la creazione della moneta unica. I sacrifici richiesti per parteciparvi, poi la crisi economica, hanno fatto venir meno nell’opinione pubblica la percezione della convenienza a far parte dell’Europa. Per i cittadini dei paesi deboli i sacrifici imposti per rimanere nell’euro sono apparsi insopportabili e per quelli dei paesi forti inaccettabile il trasferimento di risorse a favore dei primi. È così venuto meno un principio fondamentale del vivere insieme: il principio della solidarietà, previsto fin dal 1957 nel preambolo del trattato CEE e ribadito dal trattato di Lisbona del 2009.

La ricomparsa del nazionalismo e l’aspirazione a ripristinare la sovranità nazionale, caldeggiati dalla retorica populista, fanno intravedere il sogno del ritorno a una mitica età dell’oro di Stati nazionali autosufficienti, supposti in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini e di continuare a garantire un esteso sistema di sicurezza sociale, ridimensionato negli ultimi anni, secondo la propaganda populista, dalle politiche di rigore imposte da una casta tecnocratica radicata nell’UE. Effetto di questo atteggiamento è la pretesa di ridurre i poteri dell’UE, di rinazionalizzare le sue politiche, di riappropriarsi della sovranità ceduta all’Europa.

Il sovranismo è diventato l’alternativa popolare all’europeismo inteso come progetto di integrazione sovrannazionale, coltivato da élite tecnocratiche insensibili ai bisogni dei cittadini che pagano i costi delle politiche di austerità e che subiscono la sfida alla loro identità culturale.

La convenienza economica rimane un elemento fondamentale dell’integrazione, ma non è più percepita dall’opinione pubblica che vede nell’Europa non un vantaggio, ma un costo insopportabile; quindi non è più sufficiente a tenere insieme gli europei. Manca la consapevolezza di “essere europei”, dell’identità europea, dell’Europa come centro di riferimento identitario, un’adesione ragionata e convinta all’ideale, e alla necessità, dello stare insieme.

Nei decenni passati si è fatta l’Europa senza gli europei, non c’è stato alcun fenomeno di europeizzazione dell’opinione pubblica, ad eccezione delle élite, paragonabile al processo di nazionalizzazione delle masse che si è verificato nel corso dell’Ottocento e che ha integrato i popoli europei nei rispettivi Stati nazionali.

Per porre rimedio a tale mancanza occorre un processo di maturazione della consapevolezza che l’unità dell’Europa è una necessità, che il futuro sta nell’integrazione, non nell’uscita dall’UE e nel ritorno alle sovranità nazionali. Per raggiungere tale convinzione è necessario rivedere un elemento di natura culturale che non si trova fuori di noi, ma dentro di noi, nelle categorie concettuali che impieghiamo per capire e orientarci nel mondo esterno. Questo elemento è un atavismo, un residuo della cultura del XIX secolo e della prima metà del XX che ha portato alle due guerre mondiali e alla crisi dell’Europa: il mito dello Stato nazionale sovrano, autosufficiente e bastevole a se stesso. 

 

Come osservava Emery Reves nel 1945, siamo abituati a considerare i problemi politici, economici, sociali come problemi nazionali, guardiamo la realtà dal punto di vista della nostra nazione, considerata un punto fisso, intorno al quale ruotano tutti gli altri avvenimenti. Ma nulla può deformare il quadro reale degli eventi più che considerare il proprio paese come il centro dell’universo e vedere tutte le cose soltanto in relazione con questo punto fisso.

Questo metodo di osservazione crea la prospettiva falsa in base alla quale la visione che si ha da ciascun punto corrisponde alla realtà; quindi il punto di vista di ogni nazione appare indiscutibilmente corretto e del tutto giustificato, rendendo impossibile una comprensione comune e qualsiasi accordo fra le nazioni. E così concludeva: «Le nostre concezioni politiche e sociali sono tolemaiche. Il mondo in cui viviamo è copernicano. Non c’è la più tenue speranza che noi possiamo risolvere nessuno dei problemi vitali della nostra generazione fino a che non ci leviamo al di sopra delle concezioni dogmatiche naziocentriche e non ci rendiamo conto che, per comprendere i problemi politici, economici e sociali di questo mondo in alto grado complementare e industrializzato, noi dobbiamo spostare il nostro punto di osservazione e vedere tutte le nazioni e tutte le questioni nazionali in moto, nelle loro funzioni correlative rotanti secondo le stesse leggi, senza alcun punto fisso creato dalla nostra immaginazione per il nostro comodo ».

Ciò non significa ritenere superato lo Stato nazionale, che svolge funzioni indispensabili per il benessere e la sicurezza dei cittadini. Inadeguata a capire il mondo è la cultura dello Stato nazionale, cioè la convinzione che tutti i problemi siano risolvibili al suo interno, ignorando le interrelazioni con gli altri paesi. Non viviamo più in un mondo di Stati sovrani indipendenti e autosufficienti. La globalizzazione, le integrazioni regionali, le organizzazioni internazionali hanno limitato la sovranità degli Stati. Il mondo è diventato un villaggio globale. In una società globale occorre prendere atto dell’interdipendenza e ammettere che gli Stati da soli non sono più in grado di risolvere quei problemi che travalicano i loro confini e che hanno assunto dimensioni internazionali.

Occorre dunque una rivoluzione copernicana nel modo di pensare, con l’adozione di paradigmi globali al posto di quelli naziocentrici. Adottare paradigmi globali significa respingere gli slogan nazionalisti e xenofobi, diffusi dai movimenti che propagandano l’idea illusoria che la soluzione dei problemi stia in una restaurazione della sovranità nazionale e nel rinchiudersi nei confini nazionali protetti da muri supposti impenetrabili alle minacce esterne. Significa respingere anche il ricorso a un ingiustificato Europe first, che rimanda a concezioni eurocentriche e a un insensato nazionalismo europeo (l’europeismo è il superamento del nazionalismo). Significa adottare come approccio alla realtà il principio humanity first, che sottolinea l’interdipendenza globale, la necessità di ricercare soluzioni comuni nell’interesse di tutti e non di qualcuno, il contributo che l’Europa unita può offrire dimostrando la possibilità di costruire la democrazia sovrannazionale nel rispetto delle diversità dei popoli.

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