UNIVERSITÀ E SCUOLA

Quando l’università italiana divenne razzista

Compio il dovere di avvertirvi che in base all’art. 3 del Regio Decreto - Legge 5 settembre 1938 - XVI, n. 1390, recante ‘Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista’, a datare dal 16 ottobre corrente siete sospeso dal servizio”. Con questa lettera dal tono scarno e burocratico, ricevuta dal rettore Carlo Anti 80 anni fa, il fisico Bruno Rossi vedeva terminare, assieme ad altri quattro colleghi, la sua carriera di professore ordinario presso l’università di Padova.

Qualche mese dopo, sul Manchester Guardian Weekly del 6 gennaio 1939, appare un trafiletto in cui si rende noto che “il signor e la signora Rossi sono in città” e che “il signor Rossi è uno dei maggiori ricercatori viventi nel campo dei raggi cosmici” e insegnerà nel locale ateneo, mentre la signora è nipote del noto scienziato Cesare Lombroso e dello storico Guglielmo Ferrero. “È davvero straordinario pensare che il governo italiano voglia privarsi di persone del genere – conclude l’articolo – ma ad ogni modo Italy’s loss will be Manchester’s gain”.

Furono proprio scuole e università a fare da apripista nell'applicazione delle leggi razziali

Nella storia raccontata dal direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano Gadi Luzzatto Voghera proprio lo scorso 16 ottobre, durante la prima delle due giornate di studio dedicate alle leggi razziali organizzate presso l’università di Padova, c’è molta dell’assurdità di quelle misure, che però non trovarono praticamente ostacolo nella società e nella comunità accademica di allora. Paradossalmente anzi furono proprio i luoghi deputati allo studio e alla scienza, le scuole e le università, a fare da apripista nella veloce discesa agli inferi degli ebrei italiani, prima emarginati e quindi perseguitati e uccisi.

Nessuno forse, solo pochi giorni prima, lo avrebbe considerato possibile: la comunità ebraica italiana era considerata da molti un modello di integrazione, aveva contribuito in maniera determinante al Risorgimento ed espresso patrioti, uomini di scienza e di cultura, funzionari e ufficiali dell’esercito, persino due presidenti del consiglio. Eppure accadde l’inimmaginabile, e anche molto più velocemente e facilmente di quanto potesse supporre.

Il come è stato illustrato da Michele Sarfatti e da Giulia Simone nei loro interventi. La svolta razzista fu fortissimamente voluta da Mussolini venne applicata con una lucidità e coerenza inaudite: “In nessun altro Paese abbiamo contemporaneamente tre misure come un manifesto ideologico, una dichiarazione politica come quella del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre e un cambiamento legislativo come quello del 9 novembre, con cui il razzismo entra nel codice civile – ha spiegato nel suo intervento Michele Sarfatti, storico del CDEC –. In conseguenza di questo l’Italia si configura a tutti gli effetti alla fine del 1938 come uno stato razziale”.

Si trattava di un fatto nuovo: una legislazione razzista era stata a suo tempo inaugurata nelle colonie, soprattutto dopo la conquista dell’Etiopia, ma mai dalla fondazione dello stato unitario una discriminazione giuridica era stata applicata a cittadini italiani. Rotti questi argini non ci saranno più difese per gli ebrei: fino a un altro 16 ottobre, quello del 1943, in cui la Gestapo eseguirà un brutale rastrellamento nel Ghetto di Roma. 18 vagoni piombati partiranno per i lager con a bordo più di mille persone, compresi oltre 200 bambini. Torneranno in 16, tra cui una sola donna e nessun bambino. Per questo secondo Sarfatti, contro il razzismo non si deve abbassare la guardia nemmeno oggi: “basta cedere un millimetro perché la deriva inizi”.

La storica Giulia Simone ha invece evidenziano come il razzismo si sia diffuso e sia stato in qualche modo coltivato dentro l’università di Padova, prima e dopo le leggi razziali, poggiando anzitutto su due personalità di assoluto rilievo nel panorama scientifico e culturale italiano: il giurista Alfredo Rocco, a lungo ministro e padre della codificazione penale fascista, e lo statistico Corrado Gini, primo direttore dell’Istat e noto in tutto il mondo per il coefficiente che porta il suo nome. Nelle loro figure il razzismo si salda con il nazionalismo (espresso dalla convinta adesione di entrambi all’Ani, l’Associazione Nazionalista Italiana), e sfrutta il loro prestigio per affermarsi in ambito accademico e costituire quello che la studiosa chiama “il brodo di coltura delle leggi razziali”. Leggi che non si esauriranno solamente dell’esclusione dall’insegnamento dei docenti ebrei, ma che toccheranno anche la vita degli studenti e i programmi didattici. La parola ‘ebreo’ finisce non solo sui fascicoli personali degli iscritti ma addirittura sui diplomi di laurea, mentre nelle facoltà e negli istituti gli studiosi si fa a gara nell’uniformarsi al nuovo corso organizzando conferenze, lezioni e addirittura una mostra tematica sul razzismo.

Un percorso che anche a Padova si tingerà di violenza e di morte, prima con la prigionia nel campo di Vo’ Euganeo e infine con la deportazione ad Auschwitz per molti ebrei padovani. Pochi giorni fa, a 80 anni da quella vergogna, sono arrivate le scuse ufficiali del mondo accademico italiano, mentre all’inizio dell’anno sono state poste vicino al portone di Palazzo Bo, per la prima volta di fronte a un’università, le pietre d’inciampo a ricordo di docenti e studenti ebrei morti nei lager. “La pagina più buia della nostra storia – ha detto il rettore dell’università di Padova Rosario Rizzuto nel suo saluto all’inizio del convegno – che non possiamo e vogliamo dimenticare”.

---- SPECIALE GIORNATA DELLA MEMORIA

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