SOCIETÀ

La morte di Amal e degli altri: le tragedie silenziose dei bambini

La morte che coinvolge un bambino è sempre un avvenimento che desta dolore. Tanto è vero che quando si deve dare notizia di una tragedia che ha provocato vittime umane, per mostrarne la gravità si dice sempre che tra le vittime c’erano donne e bambini

Ma quando si scopre che un bambino è morto per fame l’angoscia non ha limiti. È così che è morta Amal Hussein di sette anni la cui foto, ritratta da Tyler Hicks per il New York Times, è sotto gli occhi di moltissimi di noi. Per fame, per quella progressiva denutrizione che nello Yemen da oltre tre anni in conflitto bellico con l’Arabia Saudita, avanza in altri due milioni di bambini.

Per fame se ne è andata Amal. Quando "se ne va" un bambino senza che abbia avuto il tempo di pensare se gli farebbe più piacere restare, l'angoscia per la sua morte è grande. Anche se talora si è indotti a pensare che, povero bambino "è meglio che non stia qui, in Terra, a soffrire guerra, fame, malattie e violenze di ogni tipo” e, per chi crede, "è andato ad accrescere la schiera degli angeli".

Non è questo, per quanto partecipe, il modo di affrontare un problema la cui esistenza non è solo colpa, per fare un esempio, dei belligeranti in Siria o in Yemen, ma di tutti. Tutti quanti ne sono responsabili pur ben consapevoli dei massacri frutto delle guerre in questi è in altri Paesi, e ben consapevoli che tra i milioni di cittadini costretti a migrare per mettersi in salvo con qualche misera cosa da portar via, vi sono anche moltissimi bambini che non c'è la fanno e muoiono prima di arrivare.

Bambini. Bambini? Chi sono? Ancor più di quanti, chi sono?

Già in un’altra occasione mi aveva invitato a questa riflessione Jose Saramago il quale in una delle sue opere più belle (Memoriale del convento) ha scritto “… Oggi ne sono passati più di cento, si perdoni l’imprecisione di chi non ha imparato a contare esattamente, son stati molti, son stati pochi, è come quando si dicono gli anni, ho già passato i trenta, e Baltasar dice, In tutto ho sentito dire che ne sono arrivati cinquecento, Tanti, si meraviglia Blimunda, ma né l’uno né l’altra sanno esattamente quanti siano cinquecento, senza contare che il numero è, fra tutte le cose che esistono al mondo, la meno esatta, si dice cinquecento mattoni, si dice cinquecento uomini, e la differenza che c’è tra mattone e uomo è la differenza che si crede che non ci sia tra cinquecento e cinquecento, chi non l’avrà capito la prima volta, non merita che glielo si spieghi la seconda”.

Questa riflessione, vale per i numeri, ma anche per il tempo e per tutto quello che non ha certezze oggettive, ma prevalenti interpretazioni soggettive.

E questo mi sembra di poter dire, quando si dice bambino limitandosi a guardare ai figli, ai nipoti, ai loro “amichetti” senza soffermarsi a riflettere sulle molte differenze esistenti nella realtà tra bambino e bambino; tra luogo e luogo nel quale sono nati e vivono; tra famiglie e società; tra lingue e lingue e dialetti.

E poi sino a che età si è bambini?  Le prevalenti “definizioni” di bambino portano il termine fino alla pubertà, quindi per i maschi anche a 13-15 anni e la Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia lo estende ai 18: "Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile". (E fanciullo è il termine onnicomprensivo scelto per la traduzione italiana dell'inglese "child").

Dunque non è facile dare una risposta alla domanda apparentemente banale che mi pongo; cioè “Sino a che età si è bambini?” La quale, evidentemente, ha risposte che non hanno riscontri obiettivi e unici nelle differenti realtà alle quali facevo prima riferimento.

Nell’immaginario collettivo quella del bambino viene vista come l’età del progressivo apprendimento, del vedere, del sentire, del parlare, dell’intendere, del volere, il tutto con un filo conduttore che è l’età del gioco, della spensieratezza.

Questa mi sembra una giusta immagine, ma quanti riscontri e dove ha nella realtà? E se sono quelle da 0 a 6 e poi da 6 a 11 le ripartizioni temporali nelle quali muoversi tra bambino e fanciullo queste età da zero a sei anni e da sei a undici sono rappresentative di una realtà teoricamente individuata o il frutto di riflessioni confortate dalla realtà di stati di fatto?

I bambini e i fanciulli delle bidonvilles africane o delle favelas brasiliane o della napoletana Scampia che confrontabilità hanno con i loro omologhi per età di San Francisco o di Copenaghen o di Posillipo?

In realtà bisogna prendere atto che non  si è bambini dovunque allo stesso modo e alla stessa età. I sei anni che vengono considerati quelli del passaggio alla fanciullezza e sono anche quelli dell’inizio della scuola dell’obbligo sono certamente un utile spartiacque. Ma non si può ignorare che vi sono luoghi e situazioni in cui si arriva a questa età avendo già superato l’essere bambini e altri in cui si tende a prolungarne la piacevolezza.

Prima facevo riferimento ai bambini africani e delle favelas brasiliane come esempio lampante di diversità dell’essere bambini, ma se mi guardo intorno nel luogo in cui vivo, a Napoli, non ho bisogno di spingermi tanto lontano per confermare che “non  si è bambini dovunque allo stesso modo e alla stessa età”.

A Napoli non tutti i bambini vanno a scuola. Certamente non tutti dalla stessa età negli “asili nido” o negli asili e basta. Ne va un numero maggiore alle elementari, ma nei quartieri “periferici” (periferie non solo topografiche) quando pure riuscissero a frequentare la scuola dell’obbligo dividerebbero parte del tempo con la possibilità di lavorare in qualche bar come porta-caffè o, molto peggio, dando una mano in famiglia per portare “bustine” spacciate ai richiedenti: tanto “non sono punibili”. 

Aveva sette anni Amal. Dunque era entrata nella fase della fanciullezza… Si fa per dire. Ma la fame se l’è portata via. Né solo la mancanza di cibo uccide i bambini. Diventa sempre più difficile e pericoloso anche dissetarli. È un pericolo di cui ci informa “SOS Villaggio dei bambini”  comunicando che “Ogni minuto un bambino muore perché ha bevuto acqua contaminata”.

Anche Save the Children da tempo si batte per impedire il più possibile l’uso di acqua contaminata. E alla vigilia della annuale Giornata mondiale dell’acqua del 22 marzo 2018 Daniela Fatarella, vice-direttrice generale di Save the Children, ha dichiarato che “Già oggi 159 milioni di persone raccolgono l’acqua da laghi, pozzi, fiumi e entro il 2025 metà della popolazione mondiale vivrà in aree dove è scarsa. È necessario adoperarsi col massimo impegno per garantire a un più ampio numero di minori l’accesso a questa essenziale risorsa in condizioni di sicurezza e ai servizi igienico-sanitari di base: non possiamo accettare che ogni anno centinaia di migliaia di bambini muoiano per patologie facilmente prevenibili contratte per mezzo dell’acqua”.

A questi si aggiunge anche l’UNHCR, (United Nations High Commissioner for Refugees) l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che, con quasi quotidiana periodicità, invia messaggi telematici con l’immagine di bambini del Sud Sudan, che chiedono di bere e invita i destinatari a contribuire per la soluzione del problema. Di un problema grave, di crescenti dimensione e che potrebbe essere risolto in tempi non lunghi con pochissimi soldi da parte di chi ce li ha.

E ce li hanno i soldi i governanti dei Paesi dell’obesità e dell’acqua a catinelle (nei bicchieri, naturalmente), ma li spendono per alimentare guerre come (ma mica solo) le stragi dei bombardieri di Riad che si riforniscono in volo da aerei cisterna americani e lanciano ordigni di fabbricazione americana ed europea. Non certo per risolvere i problemi di fame e sete dei bambini. Bambini dei quali spesso ci si interessa pure.  Magari per contrabbandarne organi o per mandarli a farsi saltare in aria in operazioni da kamikaze.

È quello che anni fa l’huffingtonpost.itdefiniva  “L’orrore nell’orrore”. In Pakistan, Somalia, Yemen è l’orrore dei bambini-kamikaze, arruolati a forza e usati come (inconsapevoli) strumenti di morte. Numeri impressionanti, come le storie di ognuno di loro. L’utilizzo dei bambini kamikaze è in aumento, ed è in diminuzione la loro età. Le associazioni umanitarie parlano di 300 mila di età minore ai quattordici anni nei vari continenti.

Intanto abbiamo sotto gli occhi la foto di Amal che dice e ammonisce. Perché, come ha scritto Dacia Maraini (Una foto che ci spezza il cuore. Facciamola girare. Ma basterà?Corriere della Sera3 novembre 2018), “Ci sono delle fotografie che raccontano tutto in una sola immagine. Basterebbe diffondere la foto della piccola Amal Hussain per capire cosa sia la guerra e cosa sia la fame”.

Basterà?

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