CULTURA

Jorge Volpi contro le «due culture»

L’ultima volta che sono stato all’università di Padova, tre o quattro anni fa, ero in compagnia dello scrittore messicano Jorge Volpi. Per la verità, era stato proprio lui a chiedermi di fermarci a Padova mentre viaggiavamo da Perugia a Pordenone. Voleva scattare delle foto che gli servivano per il libro che stava scrivendo. Era un libro sul padre da poco scomparso, un eminente chirurgo messicano: per ricordarlo, Jorge avrebbe scritto dei saggi narrativi su una parte del corpo e sulle sue metafore culturali e politiche. E così, sulle tracce di Andrea Vesalio, siamo entrati nell’università di Padova, «una delle poche», avrebbe poi scritto nel libro, che all’epoca (attorno al 1537) «prescrivevano l’anatomia di cadaveri a fini educativi» e che apprezzavano il lavoro dei chirurghi, mentre nelle altre università europee i professori si limitavano a recitare Galeno guardando dalla cattedra un’équipe di barbieri che realizzava le dissezioni senz’altro obbiettivo che illustrare e confermare le parole (spesso errate) del Maestro.

Ora quel libro è uscito. Si chiama Examen de mi padre ed è un vero gioiello perché, da libro intimo, nato per elaborare il lutto di Volpi per la perdita del genitore, è diventato anche un’autopsia pubblica del suo tormentato e amatissimo Messico. Tuttavia, non è soltanto per l’uscita di questo volume legato all’università di Padova che ho deciso di parlare qui di Jorge Volpi. Lo faccio soprattutto per indicarlo a esempio. Jorge è, infatti, uno dei pochi scrittori al mondo capace di muoversi a proprio agio e con la medesima, enorme competenza fra letteratura, musica, pittura, fisica, neuroscienze, biologia, economia, storia, cibernetica, e chi più ne ha più ne metta. Per lui, come dovrebbe essere per tutti, non esistono confini fra le cosiddette discipline umanistiche e quelle scientifiche, non esistono le «due culture»; nella sua visione, è la stessa curiosità, è la stessa ansia di conoscenza a spingere noi scrittori a scrivere romanzi e i fisici a esplorare l’universo o il mondo subatomico, è lo stesso spirito d’avventura a spingere Velázquez a dipingere Las meninase i neuroscienziati a esplorare i meandri della coscienza.

Ne fanno fede i suoi grandi romanzi. Il primo che gli ha regalato un successo mondiale è stato In cerca di Klingsor (Mondadori, 2001), ambientato nella Germania subito dopo la seconda guerra mondiale. Racconta la ricerca da parte di uno scienziato nordamericano di un misterioso consulente scientifico di Hitler per la produzione della bomba atomica, mentre si addentra nei misteri della fisica del Novecento. In Non sarà la Terra (Mondadori, 2008), invece, si raccontano in maniera estremamente avvincente gli esordi della cibernetica e il crollo dell’Unione sovietica. Poi è venuto Memoriale dell’inganno (Mondadori, 2015), ingannevole autobiografia di J. Volpi, un criminale finanziario coinvolto nell’esplosione della crisi del 2008 e figlio inconsapevole di una spia comunista che svolse un importante ruolo negli accordi di Bretton Woods e dunque nel porre le basi del capitalismo attuale.

Invece, purtroppo, non ha ancora trovato un editore italiano un suo saggio intitolato Leer la mente. El cerebro y el arte de la ficción. Ed è davvero un gran peccato. Muovendosi fra letteratura, neuroscienze e biologia evolutiva, in questo libro Jorge Volpi dimostra che non è vero che la letteratura non serva a nulla, come afferma anche qualche collega scrittore, convinto, anzi, che la sua bellezza risieda proprio nella sua «inutilità». Secondo Volpi, probabilmente è vero il contrario. Dal punto di vista della biologia evolutiva, della psicologia, delle neuroscienze, infatti, la circostanza che l’uomo sia l’unico animale che non può fare a meno dei racconti, in tutte le loro forme, che ne produce e ne consuma a dismisura da quando è un cucciolo fino al momento della morte, che lo fa perfino quando dorme o sogna a occhi aperti, non può essere un lusso, un’attitudine nata in maniera casuale, un piacevole errore. Se così fosse, la logica utilitaristica dell’evoluzione l’avrebbe ben presto eliminata dalla vita umana, non potendo permettere un simile spreco di tempo ed energia.

Forse, invece, l’homo sapiens può identificarsi con l’homo narrans. Per Volpi, infatti, la finzione e la narrazione svolgono un compito indispensabile per la nostra sopravvivenza: «Non solo ci aiutano a predire le nostre reazioni in situazioni ipotetiche, ma ci obbligano a rappresentarle nella nostra mente e, a partire da lì, a intravedere cosa proveremmo se le sperimentassimo davvero. Una volta fatto questo, non tardiamo a riconoscerci negli altri, perché in qualche misura già siamo gli altri». Flaubert affermò «Madame Bovary c’est moi», ma ogni lettore o spettatore di un film potrebbe dire la stessa cosa. La finzione narrativa, insomma, accentua il legame sociale, l’empatia, la solidarietà. Plasma sottilmente le nostre convinzioni, i comportamenti, i princìpi etici, ma ci modifica anche nel profondo, cambiando i nostri circuiti neuronali, trasformandosi in una specie di macchina virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana e ci attrezza ad affrontarli, rendendoci anche più «adatti»alla vita sociale. Ci insegna, infine, a pre-vedere, a immaginare, che è il grande vantaggio evolutivo del sapiens rispetto a ogni altro animale. E tutto questo spesso senza che ce ne rendiamo conto, perfino divertendoci, allo stesso modo in cui non ci accorgiamo di quanto lavoro neuronale sia stato necessario per permetterci di afferrare una palla al volo o di non cadere per le scale senza pensare in maniera conscia ai movimenti necessari per farlo. 

Perfino la nostra stessa memoria non è che una narrazione che il nostro cervello elabora processando i ricordi, ma è tutt’altro che un resoconto obbiettivo. E la «realtà»? A partire dalle percezioni, il cervello la ricrea, la inventa, proprio come uno scrittore concepisce un romanzo e un lettore lo decifra, presentandola poi in quella forma al nostro Io. Il quale, a sua volta, è solo «uno schivo fantasma»,impossibile da localizzare in alcun punto del cervello. Insomma, è anch’esso un«racconto»: l’io e la coscienza rappresentano l’ultimo stadio di quel meraviglioso cammino evolutivo che ci ha trasformati in «materia capace di pensare la materia».

Come scrive Volpi, «se la finzione è un utensile tanto potente per esplorare la natura – e specialmente la natura umana – è perché anche la finzione è realtà. Anche se nella maggior parte dei casi siamo in grado di differenziare la verità dall’invenzione, la loro sostanza si mantiene identica. Per questo motivo, la finzione è fondamentale per la nostra specie. La letteratura non serve semplicemente a intrattenerci o ad affascinarci. La letteratura ci rende umani».

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