SOCIETÀ

Il conflitto tra governati e governanti: la classe dirigente di oggi

Il distacco tra il Paese legale e quello reale: il tema del conflitto tra governanti e governati non è una novità del presente. In maniera più o meno lampante, esso accompagna con una certa continuità l’esperienza politica già dall’inizio del ‘900; e, seppur in forme diverse, ha sempre evidenziato quello scollamento fisiologico che, anche in democrazia, sussiste tra la società civile e la classe detentrice del potere politico. La tensione dialettica tra maggioranza governata e minoranza governante, però, mostra un volto del tutto nuovo nella contemporaneità. Al quale, la risposta che la classe politica mostra di saper offrire è sempre più spesso di corto respiro, che opera sul piano emozionale e che risulta capace di sollecitare solo istinti rivendicativi, privi di razionalità: in quanto tale una non risposta, foriera di possibili degenerazioni particolarmente dannose. 

Ma andiamo con ordine. 

Il presente è il tempo della scomparsa conclamata dei corpi intermedi (partiti, sindacati, patronati, associazioni); strutture che, fino alla fine del secolo scorso, avevano svolto un importantissimo ruolo di mediazione, tra istanze sociali e classe dirigente. La presenza virtuosa dei corpi intermedi, peraltro, non operava solo sul piano della mediazione. I partiti, i sindacati, i patronati, oltreché luogo di aggregazione, svolgevano un importantissimo ruolo di formazione, informazione, istruzione e cura, a favore sia delle classi più deboli e svantaggiate, sia di coloro che, animati dalla passione per il governo della società civile, ambivano a divenire protagonisti della vita pubblica del nostro paese.  I corpi intermedi, a ben vedere, proprio attraverso l’aggregazione e la formazione attorno a valori ideali condivisi, svolgevano quel delicatissimo compito di mediazione, tra legittimazione democratica e competenza politica, che faceva del suffragio universale (conditio sine qua non della democrazia), solo il momento finale di selezione di una classe dirigente, che aveva in realtà già percorso un importante cammino di formazione tecnico-amministrativa; generalmente iniziato negli enti locali e poi assurto, per i migliori, ai ranghi della politica nazionale.  

Poi, il crollo del muro delle ideologie e la questione morale in politica, che hanno caratterizzato in concomitanza l’esperienza politica italiana di fine ‘900, hanno oggettivamente spazzato via, in un tempo molto breve, una classe politica dirigente, che aveva certamente troppo spesso mostrato, di saper superare con disinvoltura la barriera dell’immoralità. Ma che, a ben vedere, non era proprio tutta da buttare: in fin dei conti, quella classe politica aveva espresso, in modo del tutto trasversale, da destra a sinistra, un profilo di competenza tecnico-amministrativa di assoluto pregio; non a caso, essa era stata in grado di affrontare e superare, con successo e mirabile spinta riformatrice, un’Italia post-bellica sconfitta e in macerie. 

La classe dirigente dei partiti tradizionali, dunque, faceva naufragio e quasi in concomitanza, con l’avvento del terzo millennio, si affacciavano, e occupavano il campo della vita politica e civile della nostra società, i nuovi fenomeni dell’economia globalizzata e degli scambi informativi attraverso la Rete. Nuovi strumenti che riescono a trasferire attraverso l’intero pianeta e in tempo reale, dati e risorse conoscitive, che allargano sensibilmente la platea dei beneficiari dei dati e delle risorse stesse; queste appaiono potenzialmente alla portata di tutti, oltretutto con l’utilizzo di impegni finanziari e intellettuali particolarmente contenuti: come si usa dire, a portata di click

Ed ecco l’effetto combinatorio dei due fattori appena richiamati: che ha aperto ad un nuovo scenario, nel quale la questione dell’occupazione dello spazio lasciato vuoto dalla classe dirigente della politica partitica tradizionale, sta mostrando dei tratti di novità tutt’altro che scontati e insignificanti

Il primo di essi è certamente quello dell’affermazione vincente di un nuova forma di leaderismo politico, che ha visto rovesciato a 180 gradi quel rapporto tra vertice e gruppo di partito, che aveva legittimato i leader politici della prima Repubblica. Oggi il partito non esprime più il vertice, perché questo si autoafferma, in una sorta di relazione diretta con il popolo elettore. Relazione rispetto alla quale il partito diviene leggero, fluido, eventuale (anche nel linguaggio definitorio, dove i luoghi d’incontro, da sezioni, diventano circoli, o addirittura club); ed esso viene costruito, a valle dell’auto-affermazione del leader, inevitabilmente, a immagine e somiglianza di quest’ultimo. In questo sistema di legittimazione diretta del leader politico - e di correlata delegittimazione della classe dirigente di riferimento di esso -, il carisma personale, un certo esibizionismo narcisista, hanno certamente il sopravvento, rispetto alla questione della competenza; che  ci può essere, non c’è dubbio, ma essa non è più in alcun modo dirimente, per garantire lo spazio per l’affermazione politica.

Rispetto a tale meccanismo, un ruolo essenziale è svolto dai social network; essi consentono un (apparente) rapporto tra le persone del tutto privo di mediazioni; gli uomini più importanti del pianeta si aprono a una sorta di filo diretto tra i primi e gli ultimi della terra, anche in un passato recente del tutto inimmaginabile (chi avrebbe pensato, solo una ventina di anni fa, di poter dialogare direttamente e in tempo reale, da semplice individuo, con il Pontefice, o con il Presidente degli Stati Uniti d’America?). È noto che questa modalità, così affascinante, è solo apparente, perché in realtà si tratta di strumenti eterodiretti da agenzie specialistiche, in materia di lettura dei flussi informativi e strategie di comunicazione. Ma ciò non toglie che esso funge da mezzo particolarmente efficiente per scambiare seduzione e consenso; ed è molto potente e fidelizzante, perché sembra dare voce e spazio a tutti: anche agli emarginati, ai dimenticati dalla politica, ai traditi dall’economia globale, che sublimano e compensano il loro disagio sociale, con l’occupazione diretta di uno spazio virtuale nella nuova tribuna della politica. La relazione carismatica gestita attraverso il rapporto diretto sulla Rete, poi, non è così difficile da mantenere e alimentare; normalmente, infatti, le aggregazioni di persone che si formano sul web, soprattutto quelle che si costruiscono attorno a soggetti capaci d’influenzare gli orientamenti individuali – e tra costoro ci sono sicuramente i leader politici –, coinvolgono persone che la pensano, spesso acriticamente, tutte allo stesso modo; che si autoalimentano in una sorta di stanza dell’eco, dove si ripetono sempre e solo le stesse cose; dove l’approccio razionale e critico ai problemi trattati è sostanzialmente bandito dal dibattito virtuale. 

I vertici della politica, dunque, divengono nomenklatura senza essere stati prima classe dirigente, senza aver costruito pazientemente e faticosamente la legittimazione democratica del consenso, attraverso un percorso di apprendimento degli strumenti amministrativi e tecnici, necessari al delicato compito del governo della cosa pubblica. Il corpo elettorale (quello del quale, secondo taluno, si potrebbe anche fare a meno, al cospetto della magnificenza della legittimazione diretta che può raccogliersi online), complice un mai sopito e sfiduciato sospetto in una classe dirigente che spesso è caduta nella tentazione di farsi oligarchia, sedotto dal rapporto diretto con il leader e attraversato dall’idea che la diffusione della conoscenza in Rete consenta a chiunque di fare qualsiasi cosa (secondo l’illogica prospettiva dell’ “uno vale uno”), non si preoccupa affatto della competenza quale pre-requisito essenziale del consenso. E si accontenta, anzi preferisce - e si accoda ad - un leader che, a dispetto della realtà di appartenenza al circuito del potere, si vuole mostrare come uomo del popolo, estraneo alle élites.  

Questa situazione complessiva, purtroppo, è destinata a non avere prospettiva, nemmeno nel medio periodo. Anzi, in diverse occasioni, ha già mostrato un respiro molto corto; perché il consenso fondato sulla seduzione è destinato a venir meno, anche rispetto a persone potenzialmente tra le più capaci e competenti, se per un qualsiasi motivo s’incrina la relazione carismatica che l’aveva determinato. Simul stabunt, vel simul cadent. Ma la carenza di prospettiva deriva soprattutto dalla spietatezza della realtà: il governo della cosa pubblica, a tutti i livelli, richiede competenze di merito e professionalità molto elevate; rispetto ad esse non è affatto vero che “uno vale uno”; l’idea che della dirigenza politico-amministrativa di un paese possa occuparsi chiunque è, sul piano razionale, un falso mito. A chiunque, in democrazia, deve essere riconosciuto di poter esercitare un diritto, che è in realtà affatto diverso: vale a dire quello di aspirare al governo della cosa pubblica, a divenire classe dirigente. Rispetto a questa aspettativa non c’è dubbio che “uno deve valere uno” e che la politica deve adoperarsi perché questo diritto sia effettivo. Ma per percorrere questa strada, devono essere costruite, in modo caparbio e paziente, capacità e competenze tecniche all’altezza della complessità della società contemporanea; idonee a soddisfare le pretese di promozione e tutela dei diritti sociali e individuali che contraddistinguono il nostro tempo. E che solo i migliori potranno ambire a gestire, sottoponendo le loro capacità e competenze al vaglio della legittimazione elettorale. Solo così potrà essere costruita un’autentica aristocrazia politico-democratica, in senso aristotelico, dove al governo dei pochi possano accedere, con il riconoscimento del suffragio, i migliori; coloro che si siano dimostrati capaci di sacrificio nell’apprendimento e di azione nell’orizzonte dell’interesse comune.

Dell'argomento si discuterà sabato all'interno del convegno "Le classi dirigenti"

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