SCIENZA E RICERCA

Un buco nero al Trullo

La collaborazione internazionale Event Horizon Telescope ci ha regalato la prima fotografia di un buco nero. Un oggetto cosmico previsto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein e sulla cui esistenza esistevano indizi fortissimi. In pratica: la certezza. Ma ora ne abbiamo, infine, la “sensata esperienza”. E dunque i buchi neri entrano a far parte dei “fatti” della scienza. In maniera definitiva.

Già, ma chi ha inventato il termine “buco nero”? Gli storici della scienza pare non abbiano dubbi: il nome che è una metafora è stato proposto da un grande fisico, John Wheeler, nel 1967. La sua proposta ha poi avuto un rapido successo. Non c’è dubbio alcuno che il termine black hole, buco nero appunto, abbia avuto successo nella comunità scientifica e sui media grazie a Wheeler.

Ma siamo proprio sicuri che sia stato lui il primo a parlare di “buco nero”?

Lasciate che il vostro cronista compia una piccola provocazione. E apriamo le pagine di La torta in cielo pubblicata – attenzione alle date – nel 1964 da Gianni Rodari, considerato il più grande scrittore per ragazzi nella storia della letteratura italiana insieme a Collodi. Leggiamo, dunque, senza indugio l’inizio di uno dei racconti, quello intitolato Quella mattina al Trullo, contenuti nella raccolta. Ricordiamo solo, a chi non è di Roma, che il Trullo è una borgata della Città Eterna.

Una mattina d’aprile verso le sei, al Trullo, i passanti che attendevano il primo autobus per il centro, alzando gli occhi a studiare il tempo, videro il cielo della loro borgata occupato da un enorme oggetto circolare di colore oscuro, che se ne stava al posto delle nuvole, immobile, a un migliaio di metri sopra il livello dei tetti. Ci fu qualche – Oh, – qualche – Ah, -  poi si udì un grido:

            - Li marziani! 

Fu come un segnale e una parola d'ordine. La gente cominciò a gridare e a correre da tutte le parti. Finestre si aprirono, altra gente si affacciò a curiosare, immaginando il solito incidente d'auto, poi guardò in su, e allora ci fu un gran chiamare e sbattere di imposte e rotolare di avvolgibili e ciabattare per scale e cortili.

            - Li marziani!

            - Er disco volante! 

            -Andiamo, sarà un’eclisse.

            «La cosa», effettivamente, pareva un gran buco nero nel cielo, e aveva intorno una corona limpida e azzurra. 

            -Quale eclisse? Questa è la fine del mondo.

 

Ora quello fotografato dai 200 ricercatori dell’Event Horizon Telescope è effettivamente un gran buco nero, con una corona con non è limpida e azzurra, ma gialla e arancione. E che i dintorni dell’oscuro oggetto cosmico stanno sperimentando effettivamente la “fine del mondo”, perché qualunque cosa cada in quel pozzo gravitazionale scompare dal (nostro) mondo.

È anche vero che quella mattina d’inizio anni ’60 del secolo scorso in cielo al Trullo non c’è un buco nero. Ma i passanti che attendono il primo autobus vedono qualche cosa, lassù, che richiama alla mente un buco nero. E, con esso, la fine del mondo

Come abbiamo detto, Gianni Rodari ha scritto La torta in cielo a puntate sul Corriere dei Piccoli nel 1964. E la prima puntata è proprio Quella mattina al Trullo. Mentre i fisici iniziano a usare l’espressione “buco nero” solo tre anni dopo, nel 1967, grazie all’intuizione di John Craig Wheeler, che in una conferenza battezza black hole ogni oggetto relativistico con una forza di gravità così grande – il cui campo gravitazionale è capace di deformare in maniera così potente lo spazio-tempo – che neppure la luce può sfuggirgli. Tutto ciò che cade in un “buco nero” è perduto per sempre al nostro universo. Il buco nero è un cosmic eraser, una gomma da cancellare cosmica. Per chi entra in un buco nero è letteralmente e definitivamente la “fine del mondo”. 

Torniamo a Gianni Rodari. È chiaro che il giornalista e scrittore, descrivendo «la cosa» oscura che vedono nel cielo del Trullo i mattinieri passanti in quella mattina d’aprile, non si riferisce alla medesima «cosa» cui pensa Wheeler. Tuttavia sappiamo anche che Rodari conosce il concetto di spazio-tempo e di buchi nelle spazio-tempo. Per cui il riferimento non è del tutto casuale.

E allora? Cosa ci dice tutto questo?

Nulla. Ci offre lo spunto solo per tre riflessioni sulla osmosi delle parole e delle metafore tra letteratura e scienza. La prima riflessione è che John Wheeler riesce a impadronirsi di un’immagine di senso comune in ogni lingua e latitudine – un buco nero – e di una metafora anch’essa piuttosto comune – la fine del mondo come buco nero ove precipita ogni cosa – e lo trasforma in un preciso concetto di fisica.

Una forzatura? Niente affatto. La riprova ce la fornisce lo stesso John Wheeler quando scrive, in un libro – Cosmic Catastrophes (Cambridge University Press, 2000): "I buchi neri sono diventati un’icona culturale. Sebbene poche persone capiscano la fisica e la matematica insite nei buchi neri previsti dalle equazioni di Einstein, praticamente tutti comprendono il simbolismo dei buchi neri come bocche spalancate che inghiottono qualsiasi cosa intorno a loro e non lasciano nulla fuori".

I fisici, prima di Wheeler, chiamavano “stella nera” o “stella scura” quell’oggetto relativistico dotato di una gravitazionale così grande da inghiottire qualsiasi cosa intorno a lui e non lasciare nulla fuori, neppure la luce. Ma, come scrive Leonard Susskind, quei nomi non coglievano la caratteristica essenziale dell’oggetto: quella di essere un profondo buco nello spazio dotato di un’attrazione gravitazionale irresistibile. E irreversibile. Quando qualcosa è inghiottita da un buco nero lo è per sempre. La separazione dal mondo esterno al buco nero è totale e, appunto, senza ritorno: irreversibile. Per chi entra in un buco nero è letteralmente la fine del (nostro) mondo. 

Sì, è vero, oggi non è più così. Pare che i buchi neri non siano poi così neri: in altri termini mentre le leggi della relatività generale impongono loro di inghiottire per sempre ogni cosa, le leggi della meccanica quantistica invece impongono loro di “evaporare”, ovvero di perdere materia. Ma non entriamo in questi dettagli, ben studiati da Stephen Hawking.

Resta il fatto che l’intuizione linguistica di John Wheeler è davvero geniale. La sua metafora davvero pregnante: perché offre sia al fisico sia al grande pubblico dei non esperti la descrizione essenziale di un oggetto lontano dell’esperienza comune. E come tutte le intuizioni geniali, non sempre è immediatamente compresa da tutti. Il nome, infatti, viene inizialmente bocciato dalla Physical Review, la rivista più prestigiosa utilizzata dalla comunità dei fisici, con una motivazione piuttosto bizzarra: quel nome, buco nero, suonava osceno. Ma Wheeler seppe difendere con determinazione la sua scelta e, infine, il nuovo termine passò. Oggi è di uso comune.

Anche Gianni Rodari si troverà spesso a dover difendere le sue intuizioni, il suo linguaggio, le sue metafore dai vari bacchettoni di turno. Ma alla fine quelle intuizioni, quel linguaggio, quelle metafore si sono affermate. 

Ciò ci consente di proporre la seconda considerazione in merito alla metafora del buco nero come fine del mondo usata da Gianni Rodari prima di Wheeler. È chiaro che lo scrittore italiano non la utilizza con il significato esatto e rigoroso del fisico americano. Tuttavia la sua scelta non è casuale. Definendo un (apparente) buco nero la torta nel cielo del Trullo ed evocando la fine del mondo, Rodari è riuscito in qualche modo a catturare e a esprimere “lo spirito dei tempi”. Chi si occupava di spazio cosmico nella seconda metà del XX secolo sapeva ormai quali e quanti eventi catastrofici possono accadervi. Gli mancavano solo le parole giuste per esprimerle. Gianni Rodari – che è un giornalista e legge con assiduità le grandi riviste di divulgazione scientifica (prima fra tutte lo Scientific American) –  ne intuisce alcune e le utilizza in maniera non definita. Qualche anno dopo John Wheeler – in modo, crediamo, del tutto indipendente – utilizza quelle medesime parole per indicare qualcosa di molto più preciso e di altrettanto catastrofico. 

No, non vogliamo sottrarre al grande fisico americano la paternità del termine scientifico. Vogliamo solo segnalarvi un piccolo, piccolissimo esempio di quell’osmosi carsica di metafore e di concetti tra arte e scienza di cui ha parlato Eugenio Montale: un flusso impossibile da ricostruire nei sui nessi causali, eppure reale. E vivo.

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