CULTURA

Biennale: l'arte ai tempi della post verità. Racconto per immagini

In un’epoca in un cui il vero si traveste da finzione e la finzione si finge verità, in cui la risposta alla complessità che ci circonda è sempre più semplice, l’arte si pone come alternativa. Per andare oltre e guardare il significato delle cose da prospettive diverse, trasportandolo in nuove dimensioni in cui è possibile mettere in discussione la stessa domanda. 

Un cortocircuito culturale che sovverte le regole per rovesciare il muro della negazione. Un catalizzatore, un invito al dialogo dove persone di culture diverse possono interagire e far nascere nuove domande, moltiplicando i significati possibili.

Curata da Ralph Rugoff, May You Live in Interesting Times, cinquattottesima Esposizione Internazionale d’Arte, mette al centro l’importanza dell’esperienza culturale e visiva come innesco per l’accesso a nuove dimensioni del sapere, un ponte tra le diverse visioni del mondo. 

La Mostra rimarrà aperta a Venezia fino al 24 novembre 2019.

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1-3 Robert Henry Lawrence Jr e Robert, Tavares Strachan (Bahamas). Lo scheletro del primo astronauta afroamericano rimane sospeso nello spazio eterno, dimenticato, con solo una scritta al neon a ricordare il razzismo di cui fu vittima.

4 The White Album, Arthur Jafa (USA). Le contraddizioni della cultura occidentale, intrappolata tra violenza e amore come propulsori di un sistema di potere globale, viste attraverso gli occhi disincantati di un afroamericano (Leone d’oro come miglior partecipante).

5-6  For, in your tongue, I cannot fit, Shilpa Gupta (India). Le voci di cento poeti incarcerati a causa delle loro idee risuonano nella stanza, creando un paesaggio sonoro lacerante. I testi delle loro poesie, trafitti,  sono il filo sottile che lega il pubblico all’oratore.

7-9 The Ground, Tarek Atoui (Libano). Frutto di un viaggio attraverso la Cina durato cinque anni, l’ambiente sonoro creato dall’artista è uno spazio sensoriale unico dove il suono dei diversi materiali (legno, ceramica, acciaio) è in rapporto costante con gli elementi che lo circondano.

10-11 Global Agreement, Neïl Beloufa (Francia). Seduti su delle scomode panche che ricordano gli attrezzi di una palestra, ascoltiamo le storie di giovani militari, raccolte attraverso i social media. Ma non siamo soli: ognuno dalla sua postazione può osservare gli altri, in un ossessivo, vicendevole controllo.

12-14 La Busqueda, Teresa Margolles (Messico). Un grido di dolore che sia stimolo per una reazione pubblica: mentre un suono a bassa frequenza fa vibrare i pannelli di vetro, i volti di studentesse e operaie assassinate a Ciudad Juarez sono un monito contro la violenza (menzione speciale).

15-18 Untitled, Cameron Jamie (USA). Siamo ciò che indossiamo. Una maschera, usata come scudo per affrontare i limiti che le aspettative sociali impongono. E se la maschera non fosse la nostra ma quella di qualcun altro, cosa vedremmo attraverso i suoi occhi?

19-20 Crochet Coral Reef, Christine e Margaret Wertheim (Australia). Un grande progetto collettivo, parte di un progetto più ampio (con 10.000 persone coinvolte in tutto il mondo) che unisce scienza e arte. Le centinaia di coralli realizzati in lana e cavi elettroilluminescenti emulano la vita sottomarina nella sua capacità di evolvere, adattandosi all’ambiente circostante. 

Partecipazioni nazionali

21 Russia (Alexander Sokurov). Fuori dalle finestre il mondo è sconvolto dalle atrocità della guerra. Dentro, la luce è inquadratura. Il filo conduttore che mette in relazione il museo con l’atelier dell’artista.

22-24 Belgio (Jos de Gruyter e Harald Thys). Decine di automi costruiscono un mondo alienante, fatto di movimenti ripetitivi ma innocui, mentre ai margini si ammassano disadattati, psicotici, delinquenti e poeti (menzione speciale).  

25-27 Cile (Voluspa Jarpa). Una revisione della storia che è un atto di de-colonizzazione. Una riflessione sulla violenza della cultura europea e l’imposizione della sua prospettiva per andare oltre e ripensare la società contemporanea.

28 Repubblica del Kosovo  (Alban Muja). Le ferite lasciano cicatrici profonde nei bambini in fuga dalla guerra. Cicatrici che, a distanza di vent’anni, fanno ancora male in quei bambini oggi diventati adulti. Le interviste agli ex rifugiati della guerra del Kosovo sono un monito per la società occidentale.

29-31 Israele (Aya Ben Ron). In un luogo che si ispira ai centri di cura sanitaria, trovano spazio le voci degli ultimi e si mettono in risalto le ingiustizie sociali, attraverso un processo collettivo di catarsi individuale.

L’artista imposta i parametri iniziali della conversazione, ma sono le reazioni dello spettatore a farne proseguire lo sviluppo Ralph Rugoff

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