SOCIETÀ

In Libia è ancora tutti contro tutti

“Il massacro di Tajoura, in cui hanno perso la vita oltre 50 migranti e che è stato probabilmente causato da un attacco dell'aviazione del generale Khalifa Haftar, ci fa semplicemente capire che in Libia c'è una guerra, di cui forse c'eravamo dimenticati ma che va avanti da mesi”. L’analisi di Michela Mercuri, docente di storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’università di Macerata, è netta e lucida come sempre. Studiosa e analista tra le più ascoltate, è autrice del libro  Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (Franco Angeli), di cui è stata appena stampata la seconda edizione.

La vicenda del centro di detenzione per migranti bombardato continua a tenere banco anche in questi giorni perché il governo di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj, ha appena annunciato il rilascio di circa 350 sopravvissuti alla strage, che potrebbero presto riversarsi nei barconi per raggiungere le coste italiane. “Questa è però soltanto la punta dell’iceberg, l’ultimo di una serie di episodi che hanno visto coinvolti i migranti, spesso bombardati e lasciati morire nei centri di detenzione nell’ovest libico – continua Mercuri –. Un attacco che però al contempo ci ricorda l'incapacità della comunità internazionale di creare una mediazione reale e coesa tra le potenze regionali che foraggiano i diversi attori sul terreno: Turchia e Qatar per quanto riguarda Sarraj, Emirati Arabia, Arabia Saudita ed Egitto per Haftar. Le posizioni dei singoli stati sono predominanti rispetto all'interesse comune e se le cose dovessero continuare così dobbiamo chiaramente aspettarci un’escalation”.

La Libia in questo momento è un porto sicuro?

“Non è un porto sicuro semplicemente perché non è un Paese sicuro. Anche per questo, un po’ anche come provocazione, Sarraj ha recentemente affermato che potrebbe chiudere la ventina di centri di detenzione per migranti gestiti dal governo che si trovano sulla costa, perché il governo di Tripoli non è più in grado di garantirne la sicurezza. È da tempo che comunque non si riesce a garantire la sicurezza dei migranti in Libia e dunque credo sia auspicabile che questi vengano trasferiti e messi in salvo, ma affinché questo possa essere realizzato è necessario che vi sia una collaborazione della comunità internazionale, che però in questo momento sembra brancolare nel buio”.

Cosa potrebbe e dovrebbe fare l’Italia sul fronte delle migrazioni?

“Visto il contesto e allargando un po’ l’orizzonte dell'analisi al di là delle coste Italiane e della politica securitaria messa in campo da molti Paesi – non solo dall'Italia – credo che al momento Roma possa fare ben poco. C'è bisogno di un approccio internazionale, e in particolare europeo, che però presupporrebbe una comunanza di interessi tra i vari i Paesi europei e gli altri attori regionali che in questo momento sembra mancare”.

Il conflitto andrà avanti ancora per molto tempo, perché entrambi i contendenti mirano alla vittoria definitiva MIchela Mercuri

A che punto è la guerra civile tra il governo di Sarraj e le milizie del generale Haftar?

“Molti l’hanno definito una guerra di posizione, un conflitto a bassa intensità, ma in realtà ha già mietuto centinaia di vittime sia tra i civili libici che tra i migranti. Soprattutto a partire dal 4 aprile, quando le milizie al soldo di Haftar hanno deciso di avanzare verso Tripoli, pensando – forse malconsigliate dai loro alleati – di conquistare la capitale in 48 ore. In questo momento la situazione è molto fluida perché Haftar ha lanciato la seconda fase della sua offensiva, coinvolgendo i battaglioni che avevano precedentemente combattuto con lui a Derna e a Bengasi. Fino a qualche giorno fa Sarraj, con le milizie di Misurata a lui fedeli, era indubbiamente in vantaggio perché aveva anche riconquistato la città di Garian, la roccaforte di Haftar nell'ovest del paese. Questo avevo in qualche modo portato l'ago della bilancia dalla parte del governo di Tripoli, ma ora Haftar potrebbe recuperare posizioni. Intanto, come ho detto, gli attori regionali stanno riarmando le rispettive fazioni. Aggiungo che credo che il conflitto andrà avanti ancora per molto tempo, perché entrambi i contendenti e i loro rispettivi alleati mirano alla vittoria definitiva e non riconoscono l’autorità del rivale”.

Cosa sta facendo intanto la comunità internazionale?

“Assolutamente nulla, se non mere e sporadiche dichiarazioni formali che lasciano il tempo che trovano. L'esempio viene dalla riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite convocata appunto subito dopo Il massacro di Tajoura: non si è stati nemmeno in grado di individuare un colpevole e di accusare Haftar di ciò che aveva commesso, limitandosi soltanto a una generica richiesta di De-escalation. Lo stesso Trump è stato piuttosto tiepido nel condannare le violenze, perché comunque in questo momento è vicino ad Haftar e sta rafforzando le relazioni con il presidente Al-Sisi, che di Haftar è un alleato importante. La Russia a sua volta ha chiaramente detto al nostro premier Conte che è stata la Nato a creare la situazione libica e quindi spetta a lei risolverla: si sta forse tirando un po' indietro per cercare di vedere cosa accade in questo scenario. Ho fatto l’esempio di Stati Uniti e Russia ma potrei anche parlare della Francia e degli altri attori internazionali: finché ognuno continua a sostenere per convenienza i propri alleati sul terreno non si giungerà mai a una un tentativo di dialogo serio per la stabilizzazione del paese”.

Quale potrebbe essere una Road map per la per la pacificazione del Paese?

“Parlarne in questo momento è quasi un'utopia. Bisognerebbe innanzitutto di pacificare il Paese, altrimenti qualunque azione rischia di cadere nel vuoto; si è parlato poi di una No-fly zone sui cieli libici e di altri azioni dirette, ma con l’attuale divisione che c'è all'interno del Consiglio di sicurezza è al momento davvero difficile ipotizzare che ciò possa accadere. In un secondo momento, se si dovesse raggiungere una tregua, sarà sicuramente necessario rivedere alcuni problemi fondamentali della Libia, primo tra tutti quello della cattiva gestione dei proventi del petrolio, una delle cause dei conflitti degli ultimi anni. Una migliore distribuzione delle risorse petrolifere, che preveda un accordo tra governo e attuali ribelli e che coinvolga la Noc (National Oil Corporation, la compagnia petrolifera nazionale della Libia, ndr) potrebbe essere una soluzione. Si tratta però di uno scenario di lungo periodo, visto appunto il caos in cui al momento versa il Paese”.

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