MONDO SALUTE

Le donne consumano più farmaci ma la sperimentazione è ancora maschile

Un farmaco aiuta a superare i “malanni di stagione; un farmaco può accompagnarti per tutta la vita e sempre un farmaco può addirittura salvartela. In Italia nel 2018, la spesa in farmaci, in ambito sia pubblico che privato, è stata pari al 29,1 miliardi di euro, con un costo medio per cittadino pari a 482 euro circa. Il rapporto nazionale dell’Agenzia italiana del farmaco, riporta inoltre altri due dati interessanti: su 40 milioni di assistiti, il 55% è di genere femminile e la spesa procapite per ogni donna è di 231 euro, contro i 227 degli uomini. Questi trend si intersecano in maniera ottimale con l’argomento di questo articolo, la farmacologia di genere. Nell’omonimo libro, pubblicato nel 2010 e scritto da Flavia Franconi, Simona Montilla e Stefano Vella, le donne sono le maggiori consumatrici di farmaci, tra il 20-30% in più rispetto agli uomini, e molti di questi prodotti non tengono in considerazione le risposte, le reazioni e gli effetti diversi  tra uomo e donna.

La farmacologia di genere è un ambito di studio complesso, in cui bisogna tenere in considerazione non solo le differenze biologiche e fisiologiche ma anche tutti quei fattori che concorrono alla formazione dell’individuo, come il comportamento psicologico, il ruolo sociale, le caratteristiche culturali e non solo. Sono davvero pochi i prodotti farmaceutici che riportano indicazioni di genere sulla scheda tecnica: questo è dovuto alla sotto rappresentazione delle donne nella sperimentazione farmaceutica.

Ne abbiamo discusso con Teresita Mazzei, oncologa e presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Firenze: “La sperimentazione sulla donna, soprattutto in età fertile, è esposta a importanti variazioni ormonali in primo luogo, senza dimenticare la possibilità di gravidanza. Generalmente si testano i farmaci su volontari sani, di genere maschile, con un peso ideale di 70 kg e d’età giovane, dai 18 ai 25 anni: sperimentarli su donna nella medesima fascia d’età, cioè in un periodo della sua vita altamente fertile, si rischierebbe di ottenere dei risultati confondenti. Gli avvenimenti legati all’assunzione della Talidomide dagli anni Quaranta in poi sono un ottimo esempio per capire il problema. La Talidomide, un farmaco per indurre il sonno, fu commercializzato liberamente e lo assunsero purtroppo numerose donne in gravidanza con la conseguenza che nacquero poi bambini focomelici (la focomelia è una grave malformazione per cui gli arti sia superiori che inferiori non si sviluppano in parte o in toto, ndr). La donna nelle sperimentazioni cliniche è sempre stata considerata una specie protetta, per evitare che gli effetti collaterali di un farmaco si ripercuotessero sul futuro bambino. La Talidomide fu testata anche su animali di genere femminile; quando fu commercializzata, la presero sia uomini che donne senza conseguenze e perciò si ritenne che anche le donne in attesa potessero assumerla. Gli effetti arrivarono a posteriori, quando vennero al mondo bambini affetti da focomelia: si decise quindi di testare il farmaco sulle scimmie femmine in gestazione e si notò lo stesso effetto".

Per capire quale sia l’approccio migliore a una farmacologia di genere, è bene analizzare come avvenga il processo di sperimentazione di un farmaco: “La prima fase è quella preclinica in cui i farmaci vengono sperimentati in vitro e poi si passa all’animale: anche lì sono carenti le sperimentazioni negli esseri di genere femminile poiché le fasi ormonali nel ratto femmina complicano, così come nella donna, la sperimentazione. Poi si passa all’uomo. Nella fase Uno si studia la farmacocinetica, cioè i processi con i quali è assimilato un farmaco. La farmacocinetica ha quattro fasi: assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione. L'assorbimento nella donna è molto più lento, dato che abbiamo una motilità gastrointestinale molto più lenta. Gli enzimi contenuti a livello gastrico e intestinale sono diversi da quelli dell'uomo e già da questo punto si possono notare le numerose differenze di genere, ancora più elevate nella fase del metabolismo. Il farmaco si è trasformato in un metabolita, cioè una sostanza più o meno attiva, dal nostro fegato, con enormi diversità tra uomo e donna nella presenza di enzimi biotrasformativi nel fegato e in altri organi. Lo stesso discorso vale per l’eliminazione del farmaco dal corpo, molto più lenta nella donna: ancora oggi le differenze di genere sono poco studiate a livello di farmacocinetica”. 

Poi si passa alla fase Due della sperimentazione: “Si testa il farmaco in un gruppo di pazienti: anche qui l’equilibro di genere ancora non c'è. Nella fase Tre si testa il farmaco confrontandolo con la migliore terapia consolidata di quel tipo; per esempio se si studia un nuovo antistaminico, si confrontano in gruppi omogenei di pazienti sia il nuovo che il vecchio farmaco, oppure addirittura in modalità placebo. Anche qui ci sono meno donne. La fase Quattro è la commercializzazione nella quale il farmaco è in commercio ma esistono gli studi di farmaco vigilanza che continuano a controllare cosa succede nella vita reale. Nella fase Tre, i pazienti selezionati hanno una sola patologia ma nella vita reale una persona, per esempio un anziano o una donna, hanno solitamente più patologie. Il farmaco, attraverso gli studi di farmacovigilanza, può risultare più tossico o avere interazioni farmacologiche che purtroppo sono molti frequenti. E qui si svela la realtà, cioè che alle donne vengono prescritti e assumono più farmaci, di tutti i tipi, rispetto agli uomini. L’unica eccezione sono quelli cardiovascolari (beta bloccanti, statine, antipertensivi) che le donne smettono di prendere a causa degli effetti avversi. Paradossalmente la prima causa di morte nelle persone di genere femminile sono le malattie cardiovascolari. Farmaci poco testati sulle donne vengono somministrati maggiormente a loro, con effetti collaterali più significativi”. 

Esistono, tuttavia, anche esempi inversi: “Ci sono dei farmaci che sono più efficaci nelle donne. Nei tumori del polmone, quando si iniziò la sperimentazione, le nuove molecole intelligenti, come l’inibitore del tirosin chinasi, avevano come bersaglio molecolare un particolare recettore, che si trova nella membrana della cellula tumorale e che veniva individuato dal prelievo bioptico con metodiche immunoistochimiche: un metodo grezzo, di vent'anni fa. Nel 2004 non avevamo in Europa questo inibitore, dato che non era passato al vaglio dell'EMA però era stato approvato in Giappone perché le donne di razza asiatica, non fumatrici, con un adenocarcinoma polmonare rispondevano in maniera migliore. L’efficacia di questo farmaco, nella popolazione giapponese in generale, era molto alta mentre in Europa era molto più bassa. Quando la biologia molecolare raggiunse livelli superiori, questo recettore fu visibile con analisi molecolari anche da noi e allora si vide che anche le donne caucasiche, non fumatrici e con un adenocarcinoma polmonare erano più sensibili a quel farmaco, rispondendo in generale di più rispetto agli uomini uomini. Dieci anni dopo, quando abbiamo avuto le tecnologie adatte, il farmaco è entrato in commercio”.

Quali sono allora i possibili sviluppi della farmacologia di genere? “Personalizzare sempre di più la terapia, sempre più specifica per l’individuo in generale. La medicina personalizzata dovrà diventare il futuro, progettando farmaci adatti oppure prevedere dosi più appropriate, con intervalli di somministrazione diversi. Per esempio, il 5-fluorouracile, utilizzato nella terapia chemio, è più efficace nelle donne. È un chemioterapico classico, che si adopera nei tumori del colon e della mammella. Ci sono dati interessanti: il 5-fluorouracile è più efficace nelle donne però è anche più tossico. La stessa dose tra uomo e donna per via endovenosa dà livelli ematici molto più elevati nel genere femminile che lo metabolizza e lo elimina in maniera diversa. Andrebbero anche ricontrollati i vecchi farmaci, personalizzando la somministrazione. In Italia ci sono 400.000 medici: una volta si studiava il paziente neutro, prendendo in considerazione la malattia e non la persona, con nessuna differenza di genere. Ora si stanno scoprendo differenze di genere enormi nelle malattie, nei sintomi, nelle terapie e nella diagnostica. È questa la strada da percorrere per avere dei risultati idonei”.

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