SOCIETÀ

Trent’anni senza Muro

Era sera quando i berlinesi iniziarono ad affollarsi ai varchi. Pochi minuti prima il portavoce della Germania Est Günther Schabowski, preso di sorpresa da una domanda del corrispondente dell’Ansa Riccardo Ehrman, si era lasciato sfuggire che i passaggi sarebbero stati aperti “da subito” per i cittadini che avessero voluto passare nei settori occidentali. In poco tempo la notizia si era diffusa nella città, poi in tutto mondo. Era il 9 novembre del 1989: una data destinata a passare alla storia per la “caduta” del Muro di Berlino.

“Anche se vivevo a Treviri, lontano da Berlino, ricordo ancora le immagini in televisione e la gioia di quei momenti: per noi era il crollo di una dittatura, l'inizio di un cammino di libertà – ricorda per il Bo Live lo storico tedesco Lutz Klinkhammer –. Il percorso successivo fino alla riunificazione sarebbe invece stato molto meno scontato, soprattutto per le generazioni nate dopo la costruzione del Muro, per le quali la divisione in due Germanie era quasi naturale”. Oggi Klinkhammer, oltre a insegnare all’università di Magonza, è vice direttore dell’Istituto Storico Germanico di Roma, dove vive da vent’anni.

Il crollo della Repubblica Democratica Tedesca fu una sorpresa?

“In realtà qualche segno di cedimento lo avevo già percepito due anni prima, durante un incontro con alcuni studiosi della DDR invitati a Bonn dalla commissione storica del Partito Socialdemocratico tedesco occidentale. Rimasi un po’ stupito dalle loro interpretazioni sul potere bismarckiano e l’impero guglielmino, quasi più ‘morbide’ rispetto a quelle degli storici occidentali. All'epoca mi sembrò un po’ strano, il segno di un nuovo clima di cambiamento e di apertura. Non mi sarei comunque mai aspettato cambiamenti del genere, e così improvvisi”.

In seguito come fu gestito il processo di unificazione?

“La tempistica fu incredibilmente rapida: nello stesso tempo oggi necessario per riparare un pezzo di autostrada furono uniti due stati, in un contesto di post-guerra fredda e con i blocchi ancora ben definiti. Del resto Kohl già nel suo discorso davanti al parlamento tedesco di fine novembre aveva presentato un piano di 10 punti che di fatto in qualche modo portava all’unificazione”.

La strada segnata sembrava quella di una serie di accordi tra le due Germanie, poi le elezioni libere del 18 marzo 1990 nella DDR cambiarono tutto

La Germania Est come reagì?

“La Sed, il partito socialista unico che aveva mantenuto il potere per quarant’anni, cercò di trasformarsi e di mantenere un’autonomia statuale, puntando allo stesso tempo anche a un accordo con la Germania occidentale. Ci fu quindi convergenza tra i due governi, anche se non negli obiettivi finali: piuttosto all’inizio sembrava che si potesse arrivare in tempi rapidi ad accordi interstatali. Poi il nuovo primo ministro della Germania orientale Hans Modrow, che aveva il compito di guidare il Paese nella transizione, indisse le prime elezioni libere per il 18 marzo 1990, e queste cambiarono fortemente il quadro. Già prima però erano in qualche modo stati stabiliti i punti principali di quello che poi sarebbe avvenuto”.

Quale sarebbe stato l’impatto della riunificazione tedesca sull'Europa?

“Già all'epoca era ben chiaro a tutti gli attori politici che avrebbe influito profondamente sugli equilibri europei; l’aspetto centrale e il più contestato era anzi proprio la collocazione della nuova Germania nel contesto europeo e mondiale. Fu messo in moto il processo del cosiddetto “due più quattro”, coinvolgendo le quattro potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, quelle presenti alla conferenza di Potsdam, e i rappresentanti delle due Germanie. Si trattava già di un condizionamento forte, nel senso che non prevedeva la partecipazione degli altri Paesi europei, in un percorso che altrimenti a mio avviso non avrebbe potuto essere così rapido. Garantire l'inquadramento di una Germania ingrandita e rafforzata in un contesto di Unione Europea era comunque l'obiettivo di tutti gli statisti dell’epoca, sia tedeschi che europei. Un processo che non fu impedito dall’Unione Sovietica, per la quale in quel momento era importante soprattutto garantire i confini del ’45 e in particolare quello tra Germania e Polonia, che non era mai stato stabilito in maniera definitiva con un trattato tra le due parti. Gli altri Paesi occidentali volevano di evitare un’egemonia tedesca puntando su una integrazione europea forte; del resto lo stesso cancelliere Kohl aveva sottolineato che l’unificazione tedesca doveva inserirsi in un contesto europeo, essere uno strumento per l’unione piuttosto che per la divisione dell'Europa. Il trattato di Maastricht e l’unificazione monetaria sarebbero rientrati in questa strategia”.

Il 9 novembre è una data a più facce: oltre al Muro c'è la proclamazione della Repubblica di Weimar, ma anche la Kristallnacht

Oggi come viene vissuto in Germania il trentennale della caduta del Muro?

“Innanzitutto c'è una differenza netta tra Germania e Italia nel modo di festeggiare le ricorrenze nazionali. Ad esempio il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, in Germania viene commemorato con un discorso al parlamento, mentre in Italia ci sono mille iniziative locali e nelle scuole. Inoltre la festa ufficiale per l'unificazione sarebbe il 3 ottobre, ma si tratta un giorno molto meno sentito dalla popolazione. C’è anche chi propone di celebrare l’8 ottobre, data di inizio delle cosiddette ‘manifestazioni del lunedì’ contro il regime comunista a Lipsia: c'è insomma una sorta di concorrenza tra le memorie individuali e quella statale. Bisogna inoltre ricordare che il 9 novembre ricorrono anche altre date epocali della storia tedesca: 101 anni fa nasceva la repubblica parlamentare di Weimar e quasi contemporaneamente veniva proclamata una repubblica socialista, prefigurando in qualche modo anche la successiva divisione della Germania. Un altro 9 novembre, tragico stavolta, è quello della Kristallnacht nel 1938. Si tratta insomma di una data a più facce, da un lato felice ma allo stesso tempo anche funesta per la storia tedesca”.

Oggi la Germania è guidata da Angela Merkel, cresciuta all’Est, eppure dall’ex DDR sembrano arrivare molti segnali di scontento…

“Dopo 30 anni sono subentrati tanti cambiamenti, non si può raccontare una storia a senso unico, tenendo presente solo il lato eroico e i successi raggiunti: una narrazione trionfalistica che non corrisponde alla complessità della situazione. Innanzitutto teniamo presente che la Germania ha una forte caratteristica federale, con identità regionali e locali forti che la dittatura della Sed aveva cercato in qualche modo di far scomparire, ma senza riuscirci. Oltre a questo, come in Italia, abbiamo dei processi di unificazione non ancora completati. Le differenze economiche, pur essendoci, non sono l’aspetto più rilevante: si tratta soprattutto di una questione di riconoscimento delle biografie. Un’intera generazione di tedeschi orientali ha vissuto non solo la liberazione dalla dittatura, ma anche una serie di trasformazioni traumatiche: la perdita del posto del lavoro, il mutamento dell'assetto politico, sociale e culturale del Paese… Un intero pezzo della loro storia a un certo punto è divenuto non più raccontabile, è stato cancellato, mentre allo stesso tempo veniva smantellato l'apparato produttivo orientale, che aveva anche diverse eccellenze – pensiamo solo all'industria tessile alle ottiche Zeiss”.

L'ascesa dell'estrema destra a est è soprattutto espressione di un voto di protesta

Sta in questo malessere la ragione dell'ascesa nei Länder orientali del partito di estrema destra AfD?

“Questa nostalgia legata alla mancata valorizzazione delle proprie biografie ha portato per reazione a votare per protesta un partito di destra, che ha certamente un’ala neonazista ma che nella grande maggioranza dei suoi esponenti in Italia sarebbe catalogato nello spettro del centro-destra. Mancano poi a est una cultura europeista e un ‘patriottismo della Costituzione’, per usare il termine di Habermas, che per tanti decenni nella Germania federale avevano sostituito il nazionalismo. Infine credo ci sia anche una sorta di cultura della lamentela e della critica sotterranea che potrebbe far parte di un retaggio culturale della DDR, quando non era possibile esprimere positivamente il dissenso attraverso il voto. Non si tratta comunque a mio modo di vedere di un avvicinamento al nazismo, quanto di una reazione che in qualche modo sottolinea il nazionalismo come compensazione per una mancata valorizzazione dell’Est”.

>> SPECIALE 1989

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