CULTURA

Editoria e big data

In un articolo pubblicato qualche giorno fa su El País, Jesús Ruiz Mantilla riportava le dichiarazioni di Sabrina Salvador, alta dirigente della Hachette del Regno Unito, uno dei più importanti gruppi editoriali del mondo, sui cambiamenti nell’industria del libro. «Soltanto sei anni fa» ha detto Sabrina Salvador in un congresso a Barbastro, nel nord della Spagna, «le decisioni su come e cosa pubblicare si basavano sull’istinto. Oggi si basano sui big data, che sono serviti per dare la priorità a certi titoli e anticiparli, per scoprire potenziali successi, determinare con più efficacia le risorse di marketing e promozione, misurare le aspettative del lettore e la soddisfazione che si può offrire loro».

Da qualche tempo, infatti, i grandi gruppi editoriali si sono dotati di analisti dei dati per «profilare» i lettori potenziali. Ed è indubbiamente vero che, grazie agli algoritmi e alle informazioni che noi, consapevolmente o meno, forniamo ad Amazon, Google, Apple o Microsoft, si possono ottenere dati molto precisi sul comportamento dei lettori, fino a sapere, per esempio, a che pagina esatta si perde interesse nella storia che si sta leggendo. Sembrerebbe, quindi, che decidere la pubblicazione di un libro sarà sempre più un compito affidato agli algoritmi invece che all’«istinto» e che per gli editori «tradizionali», condannati alla scomparsa, non ci sarà più alcuno spazio.

Da qualche tempo, infatti, i grandi gruppi editoriali si sono dotati di analisti dei dati per «profilare» i lettori potenziali

A parte gli editori «vecchio stampo», dunque, tutti contenti? Grazie ai big data i lettori saranno soddisfatti, le case editrici non pubblicheranno più libri da poche copie e i magazzini non saranno più carichi di rese?

Sono in molti a dubitarne. E per diversi motivi. Prima di tutto, se le affermazioni di Sabrina Salvador possono avere un qualche riscontro nel mercato anglosassone, dalle nostre parti sono molto meno fondate. I big data vengono usati, sì, ma soprattutto per gestire il magazzino e le ristampe. Anche se supportati da un congruo repertorio di informazioni fornite dalla rete, le scelte editoriali rimangono ancora saldamente affidate al fiuto degli editori. Un fiuto, un «istinto» o un sapere non innati, ma acquisiti con anni di esperienza e con capacità culturali che probabilmente nessun algoritmo può rimpiazzare.

Tuttavia, l’obiezione più forte e convincente è quella sollevata dall’agente letterario Willie Schavelzon nel suo blog: «È un errore credere che, avendo milioni e milioni di dati sui gusti dei lettori, ci sarà una garanzia di successo dei libri pubblicati. Se i nuovi libri venissero decisi basandosi su questi dati, le case editrici sarebbero condannate a offrire ai lettori sempre le stesse cose, perché l’uso dei big data ci consente di sapere con precisione cosa ha letto la gente, ma mai ciò che vorrà leggere».

In effetti, molti lettori non sanno cosa vorranno leggere finché un libro già pubblicato non cattura la loro attenzione. È stato così, grazie al «fiuto» degli editori, che abbiamo conosciuto opere e letterature a cui, se non fossero state pubblicate prescindendo dai gusti passati dei lettori, non avremmo mai avuto accesso. Del resto, l’esperienza dimostra che il rischio è una componente ineliminabile dal mondo editoriale: il bestseller è imprevedibile, nessuna strategia di marketing può essere sicura di trasformare in successo un romanzo o un saggio su cui gli editori vorrebbero puntare. Una prova? Proprio Amazon Publishing, la divisione editoriale del grande padrone degli algoritmi: quasi mai un suo libro arriva nelle liste dei più venduti.

Certo, le informazioni ottenute attraverso i big data miglioreranno sempre più la conoscenza delle abitudini di lettura, ma forse i lettori, consumatori atipici, ribelli, sofisticati, conserveranno sempre una rilevante quota di mistero e di imprevedibilità per gli analisti di dati al lavoro nelle case editrici.

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