CULTURA

L’attentato del 1944 a “Il Bò”

Poco prima dell’alba del 7 febbraio 1944 un boato fu udito dai pochi padovani che non erano sfollati dalla città, oppressa dalla durissima occupazione militare tedesca e dal fascismo risorgente e bersaglio delle incursioni aeree degli Alleati. Le quali poche settimane prima, il 16 e il 30 dicembre 1943, avevano colpito la stazione ferroviaria e raso quasi completamente al suolo il popoloso quartiere dell’Arcella, facendo strage fra gli abitanti.

A esplodere era stato un ordigno collocato all’interno di Palazzo Bo, sede centrale dell’università, nella redazione del quindicinale Il Bò, organo del Gruppo universitario fascista (G.U.F.) di Padova. La bomba provocò gravi danni ai locali e la fine delle pubblicazioni.

L’azione era stata programmata per la notte tra il 7 e l’8 febbraio, ma aveva dovuto essere anticipata di un giorno perché la polizia, temendo qualche dimostrazione, aveva chiesto al Rettore di disporre la chiusura dell’ateneo per l’8 febbraio, anniversario dei cruenti moti del 1848, quando studenti e popolani assieme erano insorti contro i dominatori austriaci.

Colpa del giornale universitario era l’aver tradito l’antico motto Universa Universis Patavina Libertas, che sempre aveva garantito libertà e protezione a tutti. Invece Il Bò, aderendo alla virulenta campagna antisemita per la difesa della “razza italiana” scatenata dal regime fascista nell’estate del 1938 e conformandosi zelantemente alle veline del Minculpop, il famigerato Ministero della cultura popolare fascista, il 20 agosto 1938 aveva pubblicato una lista di proscrizione degli insegnanti ebrei, segnando l’inizio della pagina più buia della storia dello studio patavino. Successivamente in base alle leggi razziali a Padova 51 docenti furono sbrigativamente cacciati dall’università senza alcun saluto né gesto di solidarietà da parte dei colleghi, i quali anzi si affrettarono ad accaparrarsi le cattedre rimaste libere. Tra gli studenti le vittime del provvedimento furono 139 e tra il personale non docente una decina.

Verso l’alba una bomba incendiaria con innesco a tempo fu posta nello studio del professor Ferraboschi, sede della redazione de Il Bò. Lo scoppio avvenne alle ore 6.15.

A ideare, organizzare e guidare l’azione dimostrativa nel cuore dell’Ateneo fu l’ingegner Otello Pighin, assistente alla Facoltà di Ingegneria. Col nome di battaglia di “Renato”, divenuto presto leggendario, Pighin comandava la Brigata Guastatori Giustizia e Libertà “Silvio Trentin”, che, come ebbe a dire Egidio Meneghetti, “nel rischio e nel sacrificio affratellò operai, impiegati e studenti della città e della provincia”.

Specializzata in sabotaggi, la Brigata prediletta da Egidio Meneghetti (1892-1961), rettore dell’università oltre che animatore e capo della Resistenza veneta, divenne famosa per l’audacia delle sue gesta e il valore dei tre comandanti che si succedettero al suo comando, cadendo tutti in azione: Otello Pighin, Corrado Lubian e Sergio Fraccalanza.

La “Silvio Trentin” costituiva la formazione di punta del Partito d’Azione, rappresentato dal professor Adolfo Zamboni (1891-1960), presidente del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) di Padova, indomabile oppositore della dittatura fin dal suo inizio.

La Brigata accoglieva patrioti di diverse convinzioni politiche, fra i quali don Giovanni Apolloni, professore del Collegio Vescovile “Gregorio Barbarigo”, che prese parte all’organizzazione dell’attentato al Bo.

All’incursione parteciparono due squadre. La prima formata da tre componenti della brigata: il vicecomandante Corrado Lubian, Ennio Ronchitelli, studente di giurisprudenza, e Albino Varotto. La seconda squadra era costituita da tre studenti cattolici del pensionato universitario “Antonianum”, retto dai Gesuiti, che fu importante centro di cospirazione durante tutta la Resistenza: Gianfranco de Bosio, iscritto a lettere, Guido Billanovich e Primo Masiero.

La sera del 6 febbraio, dopo il coprifuoco, i sei partigiani armati penetrarono nel Palazzo Bo con la complicità del giovane bidello Danilo Volpato. Pighin si appostò all’esterno per vigilare sullo svolgimento dell’azione.

L’edificio fu riempito di scritte provocatorie e il ritratto del rettore Carlo Anti fu coperto di nero con sotto la scritta “Marin Faliero”, il doge decapitato per tradimento dalla Repubblica di Venezia.

Furono anche disseminati manifestini scritti da Meneghetti, dove si ricordava l’8 febbraio come il giorno luminoso della rivolta degli universitari padovani “per difendere la libertà contro lo straniero” e incitava a essere “degni dell’ora”.

Verso l’alba una bomba incendiaria con innesco a tempo fu posta nello studio del professor Ferraboschi, sede della redazione de Il Bò.

Secondo il rapporto della Militärkommandantur, lo scoppio avvenne alle ore 6.15. I pompieri impiegarono tre ore per domare il successivo incendio, propagatosi alla nuova ala est dell’edificio. Nel dare la notizia, la questura e i quotidiani minimizzarono i danni e non accennarono al movente politico.

Gli attentatori abbandonarono di corsa il palazzo poco prima dell’esplosione per rifugiarsi nella vicina chiesa di San Canziano, dove era vicario don Pietro Costa, assistente diocesano dei giovani di Azione Cattolica, che fu poi arrestato quando vennero scoperte delle armi nascoste tra le canne dell’organo.

La notizia della brillante azione, diffusa da una radiotrasmittente clandestina sulla lunghezza d’onda di Radio Londra, ebbe ampia risonanza. La questura arrestò una cinquantina di studenti e li sottopose a lunghi interrogatori sotto la minaccia di deportazione in Germania e infine dovette rilasciarli, non essendo riuscita a individuare i colpevoli. La contemporanea azione nel Palazzo del Liviano degli studenti cattolici Antonio Ranzato, Bruno Lion e Francesco Simioni non riuscì per l’intervento di un guardiano.

Degli otto partecipanti all’azione al Bò, tre caddero nei successivi quindici mesi di lotta.

Otello Pighin (1912-1945), dopo un anno di febbrile attività di sabotaggio e guerriglia, il 7 gennaio 1945 fu ferito in un agguato tesogli in via Rogati con l’aiuto di un delatore dagli sgherri del “Reparto Servizi Speciali”, la famigerata “Banda Carità” dal nome del suo comandante. Considerato il reparto di polizia più efficiente della R.S.I., dipendeva dallo S.D., il servizio di sicurezza nazista. Trasportato morente a Palazzo Giusti in via S. Francesco, sede della Banda, Pighin fu torturato invano. Alla sua memoria fu conferita la medaglia d’oro al valor militare.

Lo stesso giorno, usando il medesimo delatore, il maggiore Carità arrestò Meneghetti con altri membri del C.L.N. regionale e molti collaboratori.

Per l’8 febbraio 1945 l’infaticabile “Renato” stava già approntando una clamorosa beffa: a mezzogiorno un altoparlante avrebbe diffuso dal tetto del Bò le parole di Meneghetti incise su disco che esaltavano l’università dei professori e degli studenti che credono e combattono e soffrono e muoiono e proclamavano l’Università non piega. Il discorso fu stampato e puntualmente distribuito.

Corrado Lubian (1918-1945), succeduto nel comando a “Renato”, che gli aveva comunicato il suo stesso ardimento, fu attirato in un’imboscata in Piazza del Santo il 26 marzo 1945 e brutalmente ucciso all’ingresso dell’”Antonianum”. Danilo Volpato (1918-1945) cadde combattendo contro i tedeschi a Ponte di Brenta durante l’insurrezione del 28 aprile 1945 a fianco del comandante Sergio Fraccalanza (1924-1945), studente di medicina, medaglia d’argento al valor militare alla memoria.

Vent’anni dopo quella straordinaria stagione della propria giovinezza, Gianfranco De Bosio si ispirò al suo vecchio comandante per la sua opera prima cinematografica “Il Terrorista”, un film forte, rigoroso e antiretorico che alla XXIV Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia nel 1963 vinse il premio della critica. Scritto e sceneggiato insieme a Luigi Squarzina e prodotto da Ermanno Olmi, il film aveva per protagonista Gian Maria Volontè, intenso interprete di “Renato”. Come ambientazione De Bosio preferì la Venezia minore, con il suo labirinto di calli e la sua plumbea luce invernale, ideale per drammatizzare le azioni di patrioti solitari o in piccoli gruppi.

Distantissimo da una visione oleografica della Resistenza, De Bosio mise a nudo magistralmente i conflitti di coscienza dei protagonisti e le discussioni nel C.L.N. sui metodi di lotta urbana messi in atto con determinazione da “Renato”, che i nemici accusavano di terrorismo. Pose in luce anche i contrasti sul comportamento da adottare in caso di rappresaglie contro la popolazione, confrontando la fermezza del Partito d’Azione nel combattere senza tregua tedeschi e fascisti che saccheggiavano e devastavano l’Italia col tatticismo del Partito Comunista e coll’attendismo di quello Democristiano, che s’illudeva sul rapido arrivo dell’esercito angloamericano liberatore.

L’interrogativo che “Renato” si pone nel finale del film è se “dopo che tutto questo sarà finito… ci sarà di nuovo un periodo in cui la gente si lascerà addormentare, anestetizzare da un po’ di pace e di abbondanza… e magari si sarà pronti a lasciar perdere tutto un’altra volta, la libertà un’altra volta”.

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