CULTURA

Il suicidio di Pier delle Vigne nel romanzo di Gabriele Dadati

Tutti lo ricordiamo sotto forma di pianta, nel XIII Canto dell’Inferno dantesco quando si presenta così: “Io sono colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi; fede portai al glorioso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi”.

È Pier delle Vigne logoteta di Federico II di Svevia, quell’imperatore del Sacro Romano Impero (e prima re del Regno di Sicilia) che lo fece accecare quando lo sospettò di tradimento e lui si suicidò correndo a guisa di montone contro la facciata della chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno, dopo aver chiesto indicazioni a un puer, e sfasciandosi letteralmente la testa.

C’è chi a questo suicidio non crede: pochissimo si sa infatti di quale sia la ragione che portò all’accusa di tradimento, ma, soprattutto, come si diede la morte ha qualcosa di disperato. Come se Pier delle Vigne stesse fuggendo da una possibilità ancor peggiore. Gli accusati di tradimento, poi, venivano generalmente giustiziati o, in alternativa, portati in giro come monito. Per Pietro della Vigna (de Vinea il suo cognome) così non fu. Perché l’imperatore gli volle salva la vita?

Su questi temi ha fatto ricerca lo studioso Luca Fiorentini che, come racconta Gabriele Dadati nei ringraziamenti del suo ultimo romanzo “Nella pietra e nel sangue” edito da Baldini+Castoldi, ha regalato al romanziere una copia del volume contenente il paper con le sue scoperte scrivendoci su: “La storia c’è. Ora serve un bravo narratore!”.

E Dadati l’ha preso in parola. Dopo aver letto quasi 3000 pagine di documentazione e di fonti (la maggior parte in latino e francese antico), in un lavoro che è durato quasi sette anni, ha costruito una storia che a capitoli alterni si svolge oggi e nel Duecento.

Ai giorni nostri, nemmeno a dirlo, un ricercatore si prepara a esporre su Pier delle Vigne a un convegno, e nel Duecento seguiamo l’intrecciarsi della vita di Federico II al prosatore e uomo politico che gli fece da portavoce nelle occasioni più delicate: quando gli fece revocare la scomunica (due ne ebbe, dai papi) o quando trattò con Enrico dei Plantageneti d’Inghilterra il matrimonio con la sorella Isabella. Diverse sono le scene mirabili, nel romanzo, in cui Dadati si tiene sul filo della verità storica, ricorrendo alle fonti, alle metafore usate all’epoca (come del sole e la luna per indicare il papa e l’imperatore), a una lingua che ricalca quella di allora, ma chiaramente usa la sua fantasia di narratore, dosandola in modo chirurgico.

Per esempio quando in Prato della Valle, a Padova, Federico s’erge seduto su uno scranno, sul capo “una corona fatta di archi che si incernieravano uno sull’altro” arricchita da oro e preziosi, muto e immobile. In sua vece parla alla folla Pier delle Vigne, quasi fosse un ventriloquo: la trovata del romanziere sta nel fatto scegliere la prima persona. E c’è da immaginarsi l’effetto sul pubblico. Come spiega l’autore, la forza del papa risiedeva nella sua eternità, perché pur avvicendandosi papi diversi a capo della Chiesa, la figura che ricoprono è una e immortale. Ecco, Federico immobile sul trono è investito della stessa immortalità e inarrivabilità. Non è più uomo, né solo imperatore, ma ben di più.

O ancora, quando il politico è alla corte di Enrico d’Inghilterra, una notte non riesce a dormire e passeggia nel cortile dove viene raggiunto da una voce femminile senza poter scorgere le fattezze di colei cui appartiene. Parlano del suo signore e del suo poetare d’amore (Federico fondò la Scuola siciliana) e quest’incontro ha qualcosa di sublime: attraverso di esso Dadati mostra del suo protagonista sia l’abilità politica che la sensibilità d’animo. Dice infatti dell’imperatore alla donna che vuol sapere di lui: “Mia signora, l’imperatore canta l’amore all’amore stesso” fugando eventuali dubbi che il sovrano possa avere delle cortigiane. Conserveremo fino alle ultime pagine il delizioso dubbio di chi potesse essere la donna emersa nella notte. Perché nulla è come appare.

E infatti il tema che innerva il romanzo in modo più o meno latente è quello del tradimento: quello che avrebbe compiuto Pietro, o forse invece l’imperatore nei suoi confronti; quello di chi ha permesso che Vittoria la città voluta dall’imperatore di fronte a Parma venisse presa d’assedio e vinta; quello di Madame Legrand, la studiosa che metterà il giovane ricercatore – ch’è un po’ Dadati e un po’ Luca Fiorentini – sulla giusta via per comprendere come andarono le cose e fargli fare così una scoperta terribile (frutto dei recenti studi, che hanno appunto mosso Dadati a scrivere) che potrebbe nuocere ad altri insigni professori.

Ma il tradimento è, e noi tutti lo sappiamo bene, qualcosa che spesso si compie senza volere perché appartiene alla natura umana.

Dirà infatti Federico al suo logoteta: “Dentro gli uomini niente è limpido come questo cielo. Le parole dell’imperatore vi entrano nette, ma una volta lì si confondono con le smanie, gli inganni e le altre false parole che già vi abitano. E anche se un uomo, ricevuto il comando dal suo imperatore, vi obbedisce, resta oscuro quello che si agita dentro di lui. Ogni uomo è di per sé un traditore”.

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