MONDO SALUTE

Riapertura delle scuole: cosa sappiamo su bambini e Covid-19?

Le scuole in Europa stanno riaprendo, gradualmente e con delle limitazioni. In alcuni Paesi come la Francia, i Paesi Bassi o la Danimarca questo è già avvenuto, mentre altri Stati stanno programmando la ripresa delle attività scolastiche per le prossime settimane. Anche in Italia se ne discute, soprattutto in vista dell’auspicato rientro a settembre. L’allentamento delle restrizioni imposte dai governi per contenere la diffusione dell’infezione da Sars-CoV-2 – che hanno interessato anche il settore dell’istruzione – rende particolarmente attuale il dibattito sulla suscettibilità dei più piccoli a Covid-19 e sul loro livello di contagiosità quando contraggono il coronavirus. 

I bambini rappresentano solo una piccola parte dei casi confermati di Covid-19: meno del 2% delle infezioni segnalate in Cina, in Italia e negli Stati Uniti sono state riscontrate in persone di età inferiore ai 18 anni. I ricercatori tuttavia, sottolinea un articolo pubblicato recentemente su Nature, sono divisi sul fatto che i più piccoli abbiano meno probabilità rispetto agli adulti di contrarre e diffondere il virus. Secondo alcuni un numero crescente di prove suggerirebbe che i bambini sono a minor rischio, mentre altri ritengono che l'incidenza dell'infezione nei bambini sia inferiore rispetto agli adulti, in parte perché non sono stati molto esposti al virus, dato che in tanti Paesi le scuole sono state chiuse. A ciò si aggiunga che non vengono sottoposti così spesso ai test come gli adulti, poiché tendono ad avere sintomi lievi o assenti.  

Stando alle indagini condotte da un gruppo di scienziati a Shenzhen in Cina, nelle famiglie con casi confermati di Covid-19, i bambini di età inferiore ai dieci anni avrebbero le stesse probabilità degli adulti di contrarre l’infezione, meno però di avere sintomi gravi. Altri studi invece condotti in Corea del Sud, in Italia e in Islanda dove i tamponi sono stati più frequenti, si legge su Nature, avrebbero rilevato tassi di infezione più bassi tra i bambini. La ricerca condotta a Vo’ da Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’università di Padova, ha rilevato per esempio che nessuno dei 234 bambini al di sotto dei 10 anni, 13 dei quali hanno vissuto a contatto con persone in grado di trasmettere l’infezione, è risultato positivo al virus. Secondo un altro studio comparso su Science e condotto in Cina, i ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni sarebbero meno suscettibili alla malattia rispetto agli adulti tra i 15 ai 64 anni (gli anziani dai 65 anni in su, invece, hanno un rischio più elevato di infezione rispetto al secondo gruppo).   

Un aspetto su cui gli scienziati stanno cercando di fare chiarezza, poi, è il ruolo che i bambini hanno nella trasmissione dell’infezione. Un’indagine condotta nelle Alpi francesi avrebbe rilevato che un bambino con sintomi da Sars-CoV-2 non ha trasmesso la malattia, nonostante abbia avuto strette interazioni in tre scuole differenti, ragion per cui gli scienziati suggeriscono potenziali diverse dinamiche di trasmissione nei bambini. Sempre secondo quanto riportato su Nature, inoltre, Kirsty Short, virologo dell’università del Queensland, in Australia, avrebbe rilevato che raramente i bambini sono i primi a portare l’infezione in famiglia, sebbene qualcuno osservi che le chiusure scolastiche e degli asili nido potrebbero contribuire a spiegare perché i ragazzi non siano la principale fonte di infezione da Sars-CoV-2. Una ricerca condotta dal gruppo di Christian Drosten dell’Institute of Virology, Charité-Universitätsmedizin di Berlino su oltre 3.700 pazienti, dimostra in effetti che i bambini possono avere carica virale (la quantità di virus in circolo) simile agli adulti e dunque essere ugualmente contagiosi, dato che gli scienziati non hanno riscontrato differenze significative tra categorie di età, compresi i più piccoli. E anche uno studio condotto all’università di Ginevra sembra andare nella stessa direzione.  

Nonostante ci siano ancora nodi da sciogliere, i ricercatori concordano nel ritenere che i bambini con infezione da Sars-CoV-2 manifestino sintomi più lievi o assenti. Alcuni ritengono che ciò potrebbe essere dovuto a una minore presenza nei più piccoli di recettori Ace2, le proteine che il virus impiega per entrare nelle cellule. Si deve tener conto, poi, che un sistema immunitario giovane reagisce in modo diverso all’infezione, spiegava già qualche tempo fa a Il Bo Live Antonella Viola, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica-Fondazione città della Speranza e docente di patologia generale all’università di Padova. I bambini vengono vaccinati e le vaccinazioni probabilmente stimolano il sistema immunitario e garantiscono un minimo di protezione rispetto al nuovo virus. Si consideri poi che in natura esistono quattro coronavirus che causano raffreddori stagionali: i bambini contraggono frequentemente questi malanni e la continua stimolazione del sistema immunitario, dovuta a virus non così problematici per la salute dell’uomo, potrebbe contribuire a generare anticorpi e dunque a rendere la sintomatologia da Covid-19 più lieve.

Il fatto che la sintomatologia clinica nei bambini sia più lieve rispetto agli adulti – argomenta Susanna Esposito, ordinario di pediatria all’università di Parma e presidente della World Association for Infection Diseases and Immunological Dosorders (WAidid), con la quale abbiamo cercato di fare il punto – è ormai ben documentato dai lavori che stanno progressivamente uscendo, in cui si dimostra che l’80-90% dei bambini infettati è rappresentato da portatori asintomatici. Non vi sono ancora risposte definitive sulla loro carica virale, anche se va detto che in genere nelle infezioni virali questa è proporzionale ai sintomi, cioè quanto più una persona è grave tanto più è viremica e viceversa. Il dato interessante è che questi portatori asintomatici hanno acquisito l’infezione in larga prevalenza all’interno del nucleo familiare. Inizialmente abbiamo considerato i bambini come i principali vettori del virus in analogia con l’influenza, che i più piccoli contraggono a scuola e trasmettono poi ai familiari. In questo caso, invece, sono i familiari a trasmettere l’infezione ai bambini. E questo è importante da considerare anche nell’ottica della ripresa delle attività ricreative e scolastiche per la popolazione pediatrica”. La docente porta l’esempio dell’Emilia Romagna in cui i bambini positivi a Sars-CoV-2 sono circa 200: nell’ambito di un progetto che ha coinvolto le Unità di pediatria della Regione, si è visto che in molti casi i ragazzi hanno contratto l’infezione a casa propria e sono stati gestiti a livello domiciliare, soprattutto perché i sintomi non erano gravi e in caso di ricovero sarebbe stato difficoltoso stabilire chi avrebbe potuto rimanere in stanza con il paziente, senza incorrere nel rischio di potenziare la trasmissione infettiva. A essere ospedalizzati sono stati soprattutto i bambini con meno di un anno di età, che presentavano episodi di febbre elevata accompagnati da tosse e che richiedevano una diagnosi differenziale nei confronti delle infezioni batteriche invasive.

La pediatra propone una riflessione anche sulla relazione, evidenziata nelle scorse settimane, tra Covid-19 e malattia di Kawasaki, una patologia infiammatoria caratterizzata da vasculite sistemica che tende a presentarsi in neonati e bambini. “Io penso che non si tratti di vera e propria Kawasaki quanto, piuttosto, di una sindrome da attivazione macrofagica, cioè un quadro immunologico che rappresenta una complicanza delle infezioni, già identificato per altre infezioni virali, in cui Sars-CoV-2 sembra avere un ruolo, visto l’aumento di casi in questo periodo associato all’infezione. Non la considererei tuttavia la norma, né avrei grande timore di questa situazione, perché finora l’evoluzione è stata favorevole con una terapia di supporto. Certo, sarebbe interessante capire se ci sono persone predisposte a questo tipo di manifestazioni e qual è la terapia più efficace”.

Poste queste premesse, la docente affronta anche il tema della scuola. “Il fatto che i bambini siano portatori asintomatici, in seguito alla trasmissione intrafamiliare, induce a ristrutturare le attività sociali (che si svolgono negli asili, negli istituti scolastici, nei centri estivi) con un’organizzazione che le favorisca, ma nel contempo permetta un adeguato distanziamento. Le mascherine sono sicuramente indicate innanzitutto per gli insegnanti, gli educatori e per chi accompagna a scuola i ragazzi. Di fatto per i bambini lo sono laddove non possa essere previsto il distanziamento, ad esempio durante i momenti di condivisione (laboratori, attività ginniche etc.); vanno pianificate classi meno numerose, nelle mense dovrebbero essere organizzati dei turni in locali differenti: non si può pensare di distribuire il pranzo a gruppi diversi di bambini nella stessa sede. I centri estivi vanno organizzati favorendo le attività con un rischio infettivo più contenuto (privilegiando, per esempio, la pittura al multisport). Per questo servono spazi, insegnanti ed educatori in numero aggiuntivo rispetto alla situazione attuale. Serve assumere personale. Anche pensare a micronidi aziendali per gestire bambini di età inferiore ai sei anni”. 

La pediatra si sofferma in modo particolare sull’uso delle mascherine che, dal suo punto di vista, dovrebbe essere inserito in un programma educazionale obbligatorio da condurre nelle scuole: “Ogni istituto non può fare da sé chiamando gli esperti di turno, e non si può pretendere nemmeno che un insegnante si assuma la responsabilità di veicolare concetti estremamente complessi: si dovrebbe pensare piuttosto a un vero e proprio programma ministeriale che coinvolga i docenti e gli esperti nella prevenzione delle infezioni individuati a livello regionale o comunale”. È necessaria, dunque, una pianificazione formativa promossa da parte del Ministero, come ad esempio è stato fatto per l’Hiv, con percorsi educazionali condivisi che siano adeguati all’età: la scuola deve organizzarsi e prepararsi, perché igiene e mascherine sono importanti, ma vanno inseriti in una formazione ad hoc.  

Secondo la docente non si deve arrivare impreparati a settembre, pensando che eventualmente si potrà continuare con le lezioni online, perché per un bambino la scuola è anche formazione e non può essere completamente sostituita dalla didattica in rete. “Ai ragazzi manca più la scuola che lo sport (e questo sulla base di un’indagine che abbiamo condotto), proprio per il valore educativo che ne è alla base. L’insegnante ha un ruolo formativo di valore che non può limitarsi alla didattica online”.

Conclude Susanna Esposito: “Chiaramente tutto va rapportato alla situazione epidemiologica. Non dimentichiamoci che oggi nel nostro Paese il numero di casi positivi è comunque molto contenuto, non ci sono focolai epidemici e molti casi riguardano persone dell’Rsa o operatori sanitari. L’importante è che vengano fatti i controlli e che laddove si riscontrano persone con sintomi o situazioni di focolai epidemici a campione vengano eseguiti i tamponi necessari”.

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