SOCIETÀ

Molestie sul lavoro, Annalisa Oboe: “Una violazione al principio di rispetto e alla parità tra uomini e donne”

Ricevere delle attenzioni indesiderate in un luogo di lavoro, dove i rapporti dovrebbero essere professionali, basati sulla serietà e sulla considerazione dei talenti e dei meriti di ognuno, non solo causa fastidio e in alcuni casi paura, ma anche umiliazione.

Le molestie sessuali sono purtroppo una realtà in molti ambienti lavorativi, che nella maggior parte dei casi vengono subite da donne, e che possono provenire da colleghi, clienti o superiori. In quest'ultimo caso, in particolare, chi crede di avere diritto a comportarsi in modo inappropriato nei confronti di una dipendente, lo fa sostanzialmente abusando del proprio potere. Proprio per questo motivo, in molti casi, è ancora difficile, per chi subisce le molestie, uscire da queste situazioni a dir poco spiacevoli.
Ed è assolutamente ingiusto, inoltre, che spesso, chi si trova nella condizione di essere molestato, non solo debba vivere il trauma che ne deriva, ma non riesca neanche a trovare altra soluzione che lasciare un lavoro per il quale magari è portato, che svolge con piacere, o di cui, banalmente, ha bisogno.

“Gli abusi nei contesti in cui uomini e donne si trovano a lavorare insieme non sono certo eccezioni”, commenta la professoressa Annalisa Oboe, prorettrice alle relazioni culturali, sociali e di genere all'università di Padova. “Guardando i dati dell'Istat, si leggono numeri davvero sconfortanti. Le molestie si manifestano in tanti modi: possono essere di tipo verbale, di tipo fisico, o fenomeni di discriminazione, ostracismo, stalking e mobbing, comportamenti che si moltiplicano quando c'è mancanza di rispetto e lesione dei diritti della libertà delle persone.

C'è chi pensa che chiedere favori sessuali, o dimostrare interesse per una collega o una giovane collaboratrice, siano atteggiamenti culturale ammissibili, ma in realtà non è così. La molestia viola il principio di rispetto tra esseri umani, e anche la parità tra uomini e donne. Quando ci si trova in ambienti con sbilanciamenti di potere, come spesso succede, certe pretese da parte di chi occupa una posizione più alta non implicano che ci debba essere una risposta positiva dall'altra parte. È una visione assolutamente fuorviante del potere, perché il potere implica responsabilità, e chi ha raggiunto una certa posizione di leadership non può pensare di approfittarne o di abusarne. Si tratta di un costume diffuso non solo in Italia ma in tanti altri contesti, come testimonia l'esistenza di movimenti di protesta a livello globale da molto tempo.
Essere nelle condizioni di decidere del lavoro e delle occupazioni dei propri sottoposti non implica poterli costringere in situazioni di subalternità. Si tratta di una discriminazione che dev'essere chiara sia agli uomini che alle donne, le quali, spesso, non denunciano”.

Molte lavoratrici sono restie a denunciare questi episodi, infatti, non solo per non rischiare di perdere il loro lavoro o di rovinare il proprio futuro professionale, ma anche perché hanno paura di non essere credute, prese sul serio o di essere considerate esageratamente suscettibili. Eppure chi subisce molestie sessuali ha il diritto di denunciare e di difendersi.
Questa paura, quindi, che molte donne provano non è allora un sintomo di una mentalità diffusa poco sensibile a riguardo e di una scarsa considerazione del problema da parte delle comunità di riferimento e delle istituzioni?

Come puntualizza la professoressa Oboe, “la paura è un sentimento genuino che sostiene la difesa del sé cercando di non ritrovarsi in situazioni che la riproducano. Dall'altra parte, però, una paura profondamente traumatica richiede di essere messa in parola, proprio per uscire dal trauma. In qualche modo, la ripetizione del trauma attraverso il racconto dello stesso potrebbe essere il modo di risolvere un sentimento di profondo scacco. La paura paralizza, ma nel migliore dei casi spinge a denunciare il fatto.

Succede spesso, però, che le donne lo raccontino alle loro amiche o ai familiari ma non ricorrano ai luoghi di ascolto deputati nelle istituzioni e nelle università, e ancora più raramente che ne parlino con il difensore civico o sporgano denuncia. Sono tutti passi molto difficili da compiere, anche perché la cultura in cui viviamo, molto spesso, trivializza queste cose. Se una molestia è pesante e soprattutto ripetuta, spesso si finisce inoltre per colpevolizzare se stessi. Si ha paura di aver fatto qualcosa di sbagliato e aver attirato quelle attenzioni”.

In che modo, allora, si può sensibilizzare la società su questo tema e promuovere un vero cambiamento culturale?

Bisognerebbe ripensare a cosa significa essere uomini e donne sul luogo di lavoro, a come si debba cambiare la grammatica dei rapporti tra di loro, e poi pensare a cosa significa avere dei ruoli, ma anche riconfigurarli: ci sono poche donne in posizione di leadership, questo significa che gli ambienti di lavoro sono ancora molto gestiti da una cultura del lavoro a volte patriarcale. È anche innegabile che le imprese e le situazioni lavorative gestite da donne. propongano degli stili di collaborazione completamente diversi.

Quindi, se noi pensiamo a un intervento culturale forte per cercare di eliminare queste molestie, bisogna ripensare al significato di parole come “potere”, “diritti”, “rispetto”, e come rapportarsi con chi è diverso da me, ma ha i miei stessi diritti, come quello di dire no a una molestia e di pretendere rispetto in quanto essere umano a prescindere dal posto di lavoro”.

“Servono quindi delle precise regole di comportamento”, continua la professoressa Oboe. “E sarebbe necessario che in ogni posto di lavoro fosse anche molto chiaro qual è il modo per potersi mettere in parola senza essere giudicate ma aiutate. Perché, a volte, un giudizio non aiuta, ma può diventare una molestia.

All'università di Padova abbiamo un codice di condotta contro le molestie sessuali e morali. Si tratta di un documento molto ben fatto che ha anche avuto degli echi anche in altri atenei in Europa.
All'interno del nostro ateneo c'è una rete precisa di organismi di garanzia che sono lì per aiutare le persone in caso di molestie sessuali, morali, mobbing e stalking.

Per esempio, all'università di Padova abbiamo un Comitato Unico di Garanzia (CUG) paritetico previsto per legge, che funziona come organo di monitoraggio e può anche ricevere denunce e racconti di violenze, per poi decidere, a seconda del caso specifico, che tipo di interventi bisogna attuare. Per le molestie morali e sessuali ci si può rivolgere poi alla consigliera di fiducia, una persona esterna all'ateneo, che viene nominata da una commissione e resta in carica per un certo periodo di tempo, la quale ha a sua disposizione alcuni mezzi, riportati nel codice di condotta, per aiutare le persone che si rivolgono a lei per un consiglio. Il compito di questa figura è quello di ascoltare, consigliare e suggerire azioni di confronto e di dialogo tra le parti, per capire se è possibile il recupero di una relazione, oppure se mandare avanti, sempre con il consenso della persona interessata, una denuncia formale da sottoporre al rettore o al collegio di disciplina.

Ci sono quindi tante gradazioni in questo percorso, e chi vi accede è sempre garantito. In ateneo, inoltre, c'è anche un altro strumento che permette di segnalare eventuali situazioni critiche, e vale non solo per le molestie. Si tratta del whistleblowing, una piattaforma informatica tramite la quale è possibile segnalare episodi di grave disagio, di discriminazione o di violenza”.

“Questi strumenti non sono mai dei deterrenti”; conclude la professoressa Oboe, “però cercano di supportare il più possibile le studentesse, le dottorande e le giovani ricercatrici, affinché si sentano tutelate, rispettate e aiutate senza venire giudicate. Sono condizioni sine qua non per lavorare in un ambiente di serenità e parità”.

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