SOCIETÀ

Tra smart working e calo dei consumi: il precario equilibrio dell'Italia durante il lockdown

“La crisi economica sarà più grave di quella del 2008”. A pensarlo, secondo il rapporto Agi-Censis, sarebbero i tre quarti degli intervistati. Il progetto “Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020” è realizzato dal Censis ed ha “l’obiettivo di “fare un esame di coscienza”, analizzando le difficoltà che l’Italia si porta dietro dal passato, i nervi scoperti che hanno comportato l’impreparazione ad affrontare in maniera ottimale l’emergenza legata all’epidemia del Covid-19, per poter guardare in modo costruttivo al futuro”.

Il 61% crede che la crisi economica sarà più grave di quella del 2008

La stagnazione dei consumi

La pandemia per ora, dal punto di vista economico, ha portato ad una stagnazione dei consumi e più in generale di tutta la domanda interna. Le stime della Commissione Europea parlano di una crisi peggiore di quanto ipotizzato, con un calo del Pil italiano previsto per il 2020 del -11,2%. A questo si aggiunge il trend decrescente per quanto riguarda i consumi italiani negli ultimi 50 anni. Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo analizzare l’indagine del Censis, che riporta come “il tasso medio annuo di crescita reale per decennio si è infatti progressivamente ridotto: è passato dal 3,9% degli anni ’70 al 2,5% degli anni ’80, all’1,7% degli anni ’90, fino allo 0,2% del nuovo millennio. Da quel momento in poi, parallelamente alla stagnazione del Pil, si è registrata una perdurante calma piatta sul fronte dei consumi, sia pure con un certo recupero della spesa alimentare che nel decennio precedente era passata addirittura in negativo”.

In dieci anni quindi, i consumi degli italiani sono diminuiti, ma quale può essere il motivo? Naturalmente non può esistere una risposta univoca a questa domanda. Una spiegazione però, può arrivare dalla dinamica dei redditi, in particolar modo quelli delle famiglie, che a loro volta sono influenzati dalle variabili economiche. La seconda spiegazione ce la può fornire la rottura dell’ascensore sociale.

Già nel rapporto Censis del 2019 si evidenziava come per il 69% degli italiani la mobilità sociale sia bloccata, senza una prospettiva di miglioramento socio-economico personale. A questo bisogna aggiungere le variabili sociali che includono anche la bassa partecipazione al mercato del lavoro e quelle demografiche. 

Ormai sappiamo che l’Italia è in costante declino demografico. Secondo i dati dello scorso anno, negli ultimi 5 anni è come se fosse sparita una città grande come Palermo. Come avevamo già avuto modo di analizzare, la popolazione italiana ha “perso la sua capacità di crescita per effetto della dinamica naturale, quella dovuta alla “sostituzione” di chi muore con chi nasce”. Nel 2018 inoltre la differenza tra nati e morti (quello che è chiamato saldo naturale) è stata negativa, cioè sono morte 193 mila persone in più di quelle che sono nate.

Tutto questo quindi ha generato quindi un declino ed una stagnazione decennale dei consumi, aggravata ancora di più se a questo si aggiunge un’analisi dell’ultimo breve periodo. Il Censis infatti rivela come durante il lockdown le paure erano incentrate soprattutto sull’offerta. Da febbraio in poi però il comparto logistico italiano non si è mai fermato, riuscendo a servire aziende e cittadini di tutto il necessario (indubbiamente ci possono essere stati dei disagi per alcuni prodotti, ma un singolo caso non può cambiare un’analisi complessiva). Ciò che ha subito un drastico calo però è stata la domanda. “Le stime sul primo trimestre 2020 mostrano che le misure di contenimento della diffusione dell’epidemia hanno determinato una riduzione del 4% della spesa media mensile rispetto al primo trimestre 2019 - si legge nell’indagine condotta dal Censis -. E mostrano anche che, al netto della spesa alimentare e abitativa, il crollo è stato superiore al 12%”. 

Negli ultimi 5 anni è come se fosse sparita una città grande come Palermo

Questi dati inoltre, prendono in considerazione solamente il primo trimestre 2020, cioè da gennaio a marzo. Bisogna attendere quindi lo studio del secondo trimestre per capire a fondo quanto il lockdown abbia influito sulla domanda di beni e servizi.

Ciò che è certo però è che, anche prima dell’emergenza Covid-19, l’Italia avrebbe avuto bisogno di un sostentamento per quanto riguarda i consumi. “Da anni - sostiene il rapporto Censis - c’è la necessità di un rilancio della domanda interna, soprattutto in considerazione del fatto che in Italia il 60,9% del Pil nazionale è costituito dai consumi delle famiglie, mentre la media UE è decisamente più contenuta (53,5%) con alcuni grandi paesi come Francia e Germania che oscillano intorno al 51%”.

Qual è però la soluzione? Nessuno può avere la bacchetta magica e la risposta a questa domanda non può che essere complessa. Consapevoli che, come dice il Censis “la riduzione dell’Iva sul piano strutturale non pare una misura applicabile, soprattutto se si pensa di finanziare in deficit il corrispondente calo del gettito”, si può ipotizzare un intervento emergenziale magari intervenendo per un tempo specifico solamente su alcuni settori.  E’ questa inoltre la via al vaglio del Governo per cercare di accelerare una fondamentale ripresa dei consumi.

Per i mesi non ancora analizzati dai dati Istat però, può essere utile leggere l’indicatore dei consumi di Confcommercio (Icc) che per il mese di aprile e maggio ha riscontrato rispettivamente una contrazione dei valori tendenziali del -47,0% e del -29,4%. Dati indubbiamente allarmanti che non si erano mai registrati nel Paese, se non durante l’economia di guerra. 

La ripresa però ci sarà, anche se sarebbe importante capire con quale velocità. Questo è influenzato da diversi fattori, il primo dei quali non può che essere sanitario, cioè se la pandemia andrà scemando o si rinforzerà nuovamente con l’arrivo dell’autunno. Il clima di fiducia, sia dei privati che delle imprese è basso ma, anche questo, in leggera ripresa. I dati Istat, analizzati nel rapporto del Censis mettono in luce come l’indice imprese sia crollato dai 98,9 punti di febbraio ai 52,7 punti di maggio e l’indice consumatori sia passato da 110,5 a 94,3. “Sarà quanto mai interessante osservare l’andamento dei prossimi mesi - si legge sul rapporto Censis - per capire se i primi segnali di ritorno della fiducia che si rilevano a giugno saranno confermati anche durante la prossima estate”.

Come abbiamo capito quindi, già prima della pandemia il clima nel Paese non era certo di grande fiducia, aspetto che non è mutato nemmeno nel post lockdown. Secondo il 73% degli intervistati dl Censis infatti il coronavirus condurrà alla più grave crisi economica italiana a partire dal dopoguerra e per il 57,2% l’economia italiana subirà il peggior colpo fra tutti i Paesi avanzati. Non tutti gli indicatori però sono negativi in quanto per il 62,2% la condizione economica non sarà peggiore al termine dell’emergenza e solamente il 15,2% degli intervistati ha dichiarato che rischia di perdere il posto di lavoro a causa del coronavirus.

La crescita dell'e-commerce

C’è però un comparto che in questa crisi emergenziale sta vivendo una vera e propria espansione. Il 61% degli intervistati che hanno dichiarato che “questa emergenza ha reso evidente la possibilità di vivere in maniera differente grazie alle tecnologie digitali” si è tramutato in un vero e proprio boom dell’e-commerce. Il 25,9% degli italiani dichiara di aver aumentato l’uso della rete per acquistare beni. Incrementi di utilizzo consistenti, sia pure meno marcati dell’e-commerce, si registrano poi anche per la spesa quotidiana a distanza (+14,8%) e per i servizi di food delivery (+10,9%).

“In sintesi - conclude il rapporto -, più di due terzi degli italiani maggiorenni hanno praticato l’e-commerce (probabilmente anche attraverso la collaborazione con i familiari maggiormente esperti nell’uso della rete), poco più del 40% si è fatto consegnare la spesa a domicilio e circa un terzo ha utilizzato servizi di food delivery. Quest’ultima modalità, in effetti, risente di una variabile di offerta, essendo questo tipo di servizio localizzato esclusivamente nei comuni con una certa soglia dimensionale”.

Per il 61% questa emergenza ha reso evidente la possibilità di vivere in maniera differente grazie alle tecnologie digitali

Gli strumenti digitali poi, sono stati utilizzati anche per lavorare. Abbiamo già analizzato l’importanza dell’accesso alla rete, tanto da pensare ad una modifica costituzionale in merito, e lo stato della digitalizzazione italiana, ma l’analisi del Censis riporta come il 60,4% di chi ha lavorato in smart working preferirebbe, almeno nel breve periodo, rimanerci. “La ragione prevalente è la possibilità di continuare ad evitare rischi di contagio (sui mezzi pubblici o in ufficio) (32,5%), ma non mancano coloro che rimarcano una più ampia possibilità di far fronte ad esigenze familiari (16,5%) o perché ritengono questo modo di lavorare più produttivo ed efficiente (11,3%)”.

Se i lavoratori preferirebbero rimanere a casa, cosa pensano le aziende? Per rispondere a questa domanda è utile leggere l’indagine Istat sulla “situazione e prospettive delle imprese nell'emergenza sanitaria Covid-19”. L’istituto ha coinvolto un campione rappresentativo di circa un milione di unità, corrispondenti al 23,2% delle imprese italiane dell'industria, del commercio e dei servizi, che producono l'89,8% del valore aggiunto nazionale e impiegano il 74,4% degli addetti e circa il 90% dei dipendenti. 

Le stime riportate dal Censis parlano di circa “2,4 milioni addetti d’impresa che potrebbero operare a distanza. Ampliando la stima ai lavoratori del pubblico impiego e considerando il 50% dei dipendenti che operano in settori dove esistono meno vincoli ad operare da remoto, si arriva a valutare il fenomeno in poco più di 2,8 milioni di lavoratori (circa il 14% del totale dei due aggregati considerati)”.

Il fenomeno quindi sarebbe piuttosto contenuto. Questa però non è una cattiva notizia per il Paese. Lo smart working può essere indubbiamente più “comodo” per il lavoratore ma non aiuta i consumi. Chi lavora nella propria abitazione rinuncia al caffè al bar, alla pausa pranzo in un esercizio della zona in cui lavora. Tutto questo va ad influire nelle imprese che operano nel settore del commercio, sia all’ingrosso che al dettaglio. Queste in Italia sono più di un milione e parliamo di circa 3,4 milioni di lavoratori, che significano “al triplo di tutti coloro che sono impegnati nell’istruzione”. Per gran parte, come si legge nel rapporto Censis, si tratta di piccole e piccolissime imprese: il 96,2% del totale ha infatti meno di 9 addetti ma nel complesso rappresentano il 24,7% delle imprese del Paese”.

Il futuro quindi, non può che essere una via di mezzo tra il lavoro agile ed il lavoro in presenza.

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