SOCIETÀ

Restaurare l’ambiente: una sfida lunga una decade

Stiamo affrontando una doppia crisi, quella climatica e quella pandemica. Una situazione che ci obbliga a ripensare a tutto il nostro modello di sviluppo in una chiave che tenga insieme la dimensione economica, di giustizia sociale e di corretta relazione con l’ambiente. Per questo forse la campagna lanciata dalle Nazioni Unite, la decade del recupero degli ecosistemi (Decade on Ecosystem Restoration - 2021-2030) ci pare quanto mai urgente. Rispetto ad altre iniziative simili che in passato hanno cercato di punteggiare le nostre attività, come l’anno del family farming o le giornate della terra, dell’acqua, e via dicendo, che sono importanti come momento di riflessione collettiva ma che hanno poi un impatto concreto tutto da vedere, questa Decade si propone come un programma molto ambizioso con una timeline precisa e un piano di lavoro dettagliato. 

“La Decade unisce il mondo verso un obiettivo comune: prevenire, interrompere e fare retromarcia sulla degradazione degli ecosistemi in tutto il mondo”. Non solo foreste, o paludi, o zone umide, o praterie, dunque. La Decade è ispirata da una visione unitaria che punta a sviluppare un’economia in cui uomo e natura collaborano, cooperano per rispondere alle sfide pressanti del presente, da quelle ambientali ed economiche, a quelle sanitarie fino a quelle sociali e culturali. 

La Decade va a potenziare campagne già avviate come la Bonn Challenge, che punta a recuperare 350 milioni di ettari di terra degradata in tutto il mondo, e una serie di iniziative continentali che si stanno sviluppando in America Latina, Asia, Africa, Europa centrale e Mediterraneo. Ed è proprio dei giorni scorsi la notizia che arriva dalla Commissione Europea del lancio della Strategia della biodiversità entro il 2030, agganciata al Green Deal approvato dalla Commissione subito dopo l’insediamento. Una strategia che prevede, tra le altre azioni, anche una attenzione speciale alla piantumazione degli alberi e delle attività di recupero, di restauro dell’ambiente. Non si tratta solo di riforestazione, ma di un approccio integrato alla gestione dei diversi territori e all’attuazione di quelle che vengono definite nature-based solutions. La gestione, protezione e ricostituzione delle foreste è però uno degli assi portanti di tutta la strategia.

Iniziamo, con quella di oggi, una serie di indagini su come nel mondo diversi paesi stiano provando a mettere in campo politiche e pratiche che vadano in questa direzione, quella di lavorare insieme alla natura. E partiamo dall’Africa, il continente che, anche per via di una forte indifferenza mediatica, tendiamo a conoscere meno e nel quale, invece, possiamo trovare molte iniziative coraggiose, innovative, spesso anche molto ambiziose. Come dice Wanjira Mathai del World Resource Institute, l’Africa può contare su una popolazione molto giovane e che ha oggi una componente assai cosmopolita e consapevole del proprio ruolo. Una generazione che può giocare un ruolo di punta nello sforzo mondiale di proporre politiche di sviluppo che lavorano insieme alla natura e non contro di essa. Iniziamo da tre storie particolari e diverse, quella dell’Etiopia, del Cameroon e del Niger. 

Etiopia: il verde che ritorna

«The northern Ethiopian highlands are currently greener than at any other time in the last 145 years» (Gli altopiani del Nord dell’Etiopia sono ora più verdi di quanto non sia mai successo negli ultimi 145 anni). Jan Nyssen et al. (2014)

Il nome con cui è noto in tutta l’Etiopia significa “uomo in fiamme”. E non è difficile capire perché, ripercorrendo la sua storia di attivista ambientale. Abu Hawi era un giovane agricoltore della regione del Tigrè, al confine con l’Eritrea, quando si rese conto che disboscare per ricavare terreni da coltivare era un soluzione che, su medio e lungo termine, avrebbe portato più problemi che benefici. Una vallata - la sua vallata - ricoperta di alberi avrebbe trattenuto più acqua e umidità di una priva di copertura boschiva. Non solo, le radici degli alberi svolgono anche un importante ruolo di trattenere il suolo fertile, impedendo che venga lavato via dalle piogge esponendo, col tempo, la roccia sottostante. Sulla quale non si riesce a coltivare niente.

La storia di Abu Hawi, cominciata già negli anni Settanta, quando l’Etiopia era controllata dal potere dittatoriale del Derg, è raccontata dal documentario girato da Mark Dodd nel 2015: Ethiopia Rising. Red Terror to Green Revolution. In quasi cinquant’anni di attivismo a favore della salvaguardia degli alberi della sua terra, Abu Hawi è diventato un simbolo della maggiore attenzione per questi temi in un paese tra i più poveri del pianeta, la cui storia è segnata da carestie cicliche, ora rese ancora più minacciose dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. È stato uno dei primi che ha deciso di agire concretamente perché si era reso conto empiricamente dell’inestricabile rapporto tra la presenza degli alberi e la fertilità di un territorio, data sia dalla tutela delle risorse idriche, ma anche dalla grande biodiversità che l’ambiente forestale conserva.

Una storia, quella di Abu Hawi, che ha ispirato molti. E probabilmente anche l’attuale presidente del paese africano, Abij Ahmed Ali, che ha lanciato nel 2019 la Green Legacy, una iniziativa di piantumazione molto ambiziosa che ha mobilitato così tante persone che nelle prime 12 ore sono stati piantati 350 milioni di alberi. Un risultato davvero straordinario che è importante ricordare, soprattutto in questo momento così complicato per l’Etiopia che sta attraversando un periodo di grande difficoltà politica interna, di manifestazioni di dissenso e divisione, di instabilità e grande incertezza.

I paesi africani e quelli dell’America del Sud, come si vede dalla mappa qui sopra che mette a confronto la copertura forestale dei singoli paesi nel ventennio 1997-2017, sono quelli in cui si sono maggiormente concentrate le perdite. Nonostante gli sforzi di Abu Hawi e gli ottimi risultati nelle zone degli altipiani del Nord, per esempio, in Etiopia la copertura forestale complessiva alla fine di questo periodo era solamente pari all’88% rispetto a vent’anni prima. 

Ma la situazione è grave per il continente in generale. Lo mostrano i dati dell’ultimo Global Forest Resources Assessment sempre targato FAO, che mette in evidenza proprio come la maggiore perdita netta di foresta si sia registrata proprio nel continente africano nel trentennio 1990-2010. In questo periodo, l’Africa ha perso quasi 4 milioni di ettari, e il tasso di perdita è andato aumentando decade dopo decade.

Per questo è tanto più importante una iniziativa forte che cerca di invertire questa tendenza. Una ventina di governi di paesi africani ha sottoscritto un’iniziativa di tutela e incremento della copertura forestale che complessivamente dovrebbe portare 100 milioni di ettari di foresta in un regime di ripristino entro il 2030. Il programma si chiama AFR100 (African Forest Landscape Restoration Initiative) e da quanto dichiarato dagli stessi membri dovrebbe aver già raggiunto i 127 milioni di ettari. Ancora poco, visto quanto si è perduto, ma già un traguardo significativo, e non solo sul piano simbolico.

Chiaramente, si tratta di numeri che sono dichiarati dagli stessi paesi membri e non c’è un vero e proprio organismo di controllo sull’effettiva messa a tutela o sul ripristino delle foreste. Ciononostante, l’iniziativa e la messa in opera di uno scambio di conoscenze tra i governi, con regolari incontri e conferenze, segnala che una fetta di paesi africani ha ben chiaro il nesso essenziale tra tutela delle coperture boschive e sicurezza alimentare e le altre conseguenze negative sulla salute e sull’economia. 

“Ogni anno”, si legge nel documento che descrive l’iniziativa, “quasi 3 milioni di ettari di foresta africana vengono perduti. Il 65% del territorio dell’Africa è colpito dalla degradazione e il 3% del PIL viene perduto ogni anno a causa dell’esaurimento di suolo e nutrienti nei terreni agricoli”. Questi problemi sono esacerbati, soprattutto negli ultimi anni, dalle conseguenze del cambiamento climatico e, scrivono i membri di AFR100,  “i piccoli agricoltori e le loro famiglie ne subiscono la maggior parte delle conseguenze, perché le loro attività dipendono in gran parte da modelli meteorologici stabili, suoli sani e copertura degli alberi e acqua”.

Cameroon: gli alberi che danno lavoro

“Il grado di deforestazione era scioccante. La terra era nuda, l’acqua scarseggiava, gli animali selvatici erano diminuiti, le specie invasive stavano avendo il sopravvento.” Tabi Joda, imprenditore camerunense

Fondatore di One billion trees for Africa, Tabi Joda è un imprenditore del Cameroon. Dal 2010 ha avviato un vero e proprio business basato sulla gestione sostenibile della foresta e sulla piantumazione di alberi nel suo paese e nella regione tra Cameroon e Nigeria. Dal 2010, Tabi Joda pianta alberi coinvolgendo i ragazzi della sua comunità e dimostrando che ricostituire la foresta significa anche fare un passo avanti dal punto di vista economico. Finora, Joda stima di aver piantato oltre un milione di alberi, ma la sua ambizione è aumentare gli zeri di un bel po’. Dalla foresta ricava molti prodotti vendibili sul mercato, e grazie a un ambiente nuovamente fertile, riesce anche a coltivare altre piante, come l’avocado, diverse piante medicinali e alberi di frutta secca, che hanno un mercato in crescita. Oggi Tabi Joda dà lavoro ad altre 20 persone della sua comunità ma soprattutto fa da ambasciatore per promuovere un’idea di imprenditoria verde nel suo paese e in altri paesi della regione. 

Il Niger: un titolo diverso dagli altri

«Fino a poco tempo fa, il Niger compariva nei titoli dei giornali per le ragioni sbagliate. Uno dei paesi più poveri del mondo, con una bassa aspettativa di vita, alta mortalità infantile e pessimi servizi pubblici, questo paese ha sofferto per le frequenti siccità, perdite di raccolto e malnutrizione. Ma adesso ci sono anche buone notizie» Tony Simons, Direttore generale, World Agroforestry Centre 

La chiave è stata passare il controllo delle zone forestali di proprietà pubblica dallo stato ai piccoli contadini locali. E mettere i contadini sullo stesso piano, nella contrattazione e negoziazione, con i dipartimenti governativi locali e i ricercatori. La collaborazione tra agricoltori e istituzioni è stata dunque, secondo uno studio pubblicato dal World Agroforestry Centre, la chiave del successo nel caso della rigenerazione agro-forestale del Niger. 

Uno dei paesi più poveri al mondo, e paese chiave della zona sahariana, il Niger ha visto negli ultimi 20 anni la rinascita di due regioni, Maradi e Zinder, nella zona Sud proprio al confine con la Nigeria, dove sono stati recuperati oltre 5 milioni di ettari di terra degradata, con piantumazione di alberi, coltivazione di bulbi e di altre piante. 

Scoprendo quasi per caso che le tecniche di lavorazione della terra che utilizzavano non consentivano quasi più di avere raccolti, perché l’erosione era tale da portare via i semi appena piantati, i contadini di queste zone hanno a poco a poco messo a punto e recuperato tecniche di gestione integrata, che consentono di coltivare più piante insieme e quindi di diversificare i raccolti e garantire la compresenza di più prodotti. Oggi riescono ad allevare, a raccogliere frutti, a produrre erbe medicinali, olio e molti altri prodotti. Un segno tangibile del successo è il fatto che il reddito derivato dai prodotti forestali è di circa 1000 dollari per anno a famiglia, una somma che da quelle parti è decisamente consistente. 

Lo studio del World Agroforestry Centre, coprodotto insieme a IFAD, racconta di un paese che ha visto nel corso degli anni ‘60-’70 una rapida deforestazione, in parte dovuta anche alla necessità di utilizzare la legna per soddisfare le necessità di una popolazione in forte crescita -- erano 2 milioni nel 1950, sono 20 milioni ora. C’è stato in passato un piano di riforestazione ma che ha dato scarsi risultati. Non basta infatti piantare gli alberi: è necessario creare, a partire dalle scelte delle comunità locali, una vera e propria filiera integrata. Scegliendo piante che soddisfano i bisogni alimentari delle popolazioni locali ma anche pratiche che siano adeguate a mantenere e proteggere la fertilità del suolo, per esempio valorizzando il sottobosco e non estirpando tutto per seminare campi di monocolture poco produttivi. La storia delle due regioni del Sud del Niger è una storia di riscoperta di vecchie pratiche e di applicazione di innovazione intelligente, che mette le esigenze e le conoscenze delle comunità locali al primo posto. Una storia diversa da quelle che troveremo in altri paesi, perché le soluzioni di recupero delle terre devono necessariamente essere agganciate alle realtà locali. Ma comunque un esempio che apre uno spazio positivo di sviluppo futuro anche per paesi che che partono da una situazione economica e ambientale molto compromessa. 

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