UNIVERSITÀ E SCUOLA

La Poesia, atto di libertà

Riportiamo la lectio magistralis letta da Manuel Alegre per il conferimento della laurea ad honorem da parte dell’università di Padova, il 22 novembre 2017 nell’Aula Magna ‘Galileo Galilei’. Tra i massimi poeti e romanzieri portoghesi contemporanei, Alegre è stato uno dei principali protagonisti del lungo processo, culturale e politico, che ha portato alla ‘Rivoluzione dei Garofani’ e alla caduta della dittatura.

Prima di essere uno Stato, il Portogallo fu “trova”, “cantar de amigo”, fu la “Menina o Moça” di Bernardim Ribeiro, il dolce stil nuovo portato dall’Italia da Sá de Miranda, gli “autos” di Gil Vicente e, soprattutto, Luís de Camões, la sua Lirica e Os Lusíadas, poema che è un atto di sovranità spirituale, nel quale il poeta esalta “la lusitana antica libertà”.

Fondatore di un’identità culturale sopravvissuta a sessant’anni di occupazione castigliana, a Camões si deve il consolidamento della lingua portoghese così come oggi la parliamo e scriviamo.

Lingua in cui il Brasile ha proclamato la sua indipendenza e che Angola, Mozambico, Guinea Bissau, Capo Verde, São Tomé e Príncipe, Timor Est hanno adottato come lingua ufficiale dei propri paesi liberi e sovrani.  

Il Portogallo esiste perché, prima di essere Stato, era già lingua e poesia.

Tutte le nazioni sono misteri, ha scritto Fernando Pessoa.

Questo è forse il mistero della longevità del Portogallo e della proiezione multinazionale della lingua portoghese.

In questa lingua vi parlo, con umiltà e imbarazzo, di fronte alla grandezza della Storia dell’Università di Padova, la prima ad aver osato affermare e praticare il libero pensiero, la coscienza critica e il sapere sperimentale, principi fondanti dell’umanesimo europeo.

Ricordo con rispetto il Rettore Concetto Marchesi che, nel 1943, ebbe il coraggio di lanciare un appello agli studenti contro “l’offesa del fascismo e la minaccia germanica”.

Libertas è la parola simbolo di questa antichissima e nobile Università. Ricondotta a una scala personale, essa è sempre stata anche la mia.

Per questo, sebbene io sia piccolo di fronte ad una così grande Storia, confesso che in certo modo mi sento a casa.

Mi domando, in questo momento, se merito il riconoscimento che mi viene conferito.

Non so rispondere. Posso soltanto affermare che sono sempre stato fedele alla libertà.

Ho lottato per essa, ho vissuto e sofferto per essa, per essa ho scritto ciascun verso, ciascuna parola. Per la libertà del mio paese e per il diritto dei popoli colonizzati all’autodeterminazione e all’indipendenza.

Se questo è il senso di un così alto riconoscimento, allora sì, senza ipocrisia, confesso che mi sento degno di questa parola che è simbolo dell’Università di Padova.

Ho scritto alcuni libri, in particolare i primi due, Praça da Canção (Piazza della Canzone) e O Canto e as Armas (Il Canto e le Armi), che hanno avuto conseguenze politiche e culturali.

Proibiti dalla censura e sequestrati dalla polizia politica, sono circolati in copie manoscritte e dattiloscritte, sono stati declamati in sessioni culturali e civiche, musicati e interpretati dai più celebri cantanti dell’epoca.

Indipendentemente da me, sono divenuti due libri mitici ed emblematici.

Portavano un messaggio di libertà e dicevano cose apparentemente innocenti, affermavano che c’era stato un tempo in cui si partiva e che era arrivato il tempo di ritornare, il che, all’epoca, significava la condanna della guerra coloniale e l’urgenza di liberare il paese.

Era qualcosa che stava dentro le persone, ma solo la poesia aveva, forse, il dono di disvelarla.

Questi libri portavano anche una visione poetica della Storia e sovvertivano i miti con cui il regime salazarista pretendeva di legittimarsi.

In un’interessante tesi di dottorato presentata all’Università Cattolica di Rio de Janeiro, il professor Mário César Lugarinho caratterizza la mia poesia come “un’ortografia della Storia”.

Non che io avessi la pretesa, come Petrarca, di “rivoluzionare l’interpretazione della Storia”.

Ho cercato di dare voce poetica, questo sì, alla volontà di cambiare la nostra storia nel momento in cui era necessario fare all’incontrario il viaggio del percorso marittimo verso l’India e, quindi, scoprire il Portogallo in Portogallo.

Epopea al contrario. O “nostalgia dell’epopea”, come ha scritto Eduardo Lourenço.

Secondo Nadejda Mandelstam, vedova del grande poeta russo, “in certe epoche, solo la parola poetica, per la sua natura cosmica, è capace di afferrare la realtà”.

Dal canto suo, per Rainer Maria Rilke “i versi non sono fatti con sentimenti” e “...per scrivere un solo verso bisogna aver visto molte città, molti uomini e molte cose. Bisogna ricordare strade in regioni sconosciute, incontri inattesi e commiati da molto previsti”.

Tutto ciò è vita, e di tutto ciò si nutre la poesia.

Scrivere, per me, è sempre stato uno stato di grazia. Anche nelle situazioni più tragiche, la guerra, la prigione, l’esilio, i molti addii, e l’irrimediabile di molte morti.

Non ho avuto la possibilità, e comunque l’avrei rifiutata, di essere uno di quei poeti che, secondo il brasiliano João Cabral de Melo Neto, si credono “atemporali e a-spaziali”.

Nessuno è fuori dallo spazio e dal tempo. Nessuno è fuori dalla storia. La scrittura e la vita sono inseparabili.

La libertà, ha affermato il messicano Octavio Paz, “non è una filosofia e nemmeno un’idea, è un movimento di coscienza che ci porta, in certi momenti, a pronunciare due monosillabi: Sì o No”.

Le circostanze della vita mi hanno portato a dire No, e a dirlo in versi, secondo un certo ritmo, una certa cadenza, una certa corrispondenza di suoni e immagini.

Non per un qualche disegno prestabilito, ma per un impulso, una energia, una irresistibile fiducia nella forza della parola poetica. Nonostante l’età e le disillusioni, mantengo, oggi come sempre, la stessa fiducia nella forza liberatrice della parola.

Concordo con Octavio Paz: “L’attività poetica è rivoluzionaria per sua natura; esercizio spirituale, è un metodo di liberazione interiore”.

Credo che il ritmo della scrittura sia inseparabile dal ritmo della terra e delle maree. Esso è prima della parola e la parola cantata o danzata è prima della parola scritta.

Come il poeta portoghese Teixeira de Pascoaes, io credo che “la poesia è nata dalla danza e che il ritmo è la sostanza delle cose”. Come lui sono convinto che “la parola libera e crea: è la stessa terra dell’Altro Mondo”.

In ogni poeta c’è tutta la storia della poesia e, in certo modo, di tutte le lingue, a cominciare dall’epopea di Gilgamesh, la prima domanda che l’uomo ha inciso sulla pietra circa il significato, o il non significato, di un destino che continua a non essere rivelato.

Tutti siamo eredi di questo poeta sconosciuto. Eredi di Dante e della ricerca circolare del numero cento. Eredi di Omero e dell’Odissea, metafora dell’erranza dell’uomo in cerca di un’Itaca perduta che esiste soltanto dentro sé stesso.

Senza Virgilio e Petrarca Camões non avrebbe scritto come ha scritto.

Secondo il poeta Vasco de Graça Moura, traduttore di Dante e Petrarca, “nella poesia europea, Camões fu tra quanti compresero più a fondo la dimensione della lirica petrarchesca”.

Possiamo forse domandarci che senso abbia la letteratura in questo tempo dominato dall’avidità e dall’impero del denaro. L’economia unica porta con sé la logica del pensiero unico, della cultura unica, della lingua unica.

Come disse George Steiner: “Ciascuna lingua è un atto di libertà che permette la sopravvivenza dell’uomo. Ciascuna lingua è qualcosa che ha a che fare con ciò che Blake ha definito ‘il sacro del particolare’”.

Già alcuni anni fa José Saramago disse a Madrid che le lingue si accerchiano l’una con l’altra. E che il portoghese, così come l’italiano e il francese, sarebbero lingue minacciate.

Non sono d’accordo.

Per quanto riguarda il portoghese, non soltanto perché è la terza lingua dell’Europa Occidentale più parlata al Mondo.

Ma anche perché è una lingua di grande letteratura, la lingua di Camões e di Fernando Pessoa, dei brasiliani Carlos Drummond de Andrade e Jorge Amado, degli angolani Luandino Vieira e Pepetela, dei mozambicani José Craveirinha e Mia Couto, oltre ad essere la lingua nella quale lo stesso Saramago ha vinto il Premio Nobel. Ed è anche la lingua nella quale António Lobo Antunes ha fatto una delle maggiori rivoluzioni nel romanzo contemporaneo.

Lingua di differenti identità e differenti culture. Questa è la ricchezza di brasiliani, africani, portoghesi. Siamo differenti nella stessa lingua.

Una lingua in cui le vocali non hanno tutte lo stesso colore. E in cui le consonanti, come si sa, in Portogallo sibilano, in Africa cantano e in Brasile danzano. Una lingua che ha la stessa musica di fondo: il mare. Il mare dei nostri incontri, disincontri e reincontri. Viaggio di noi verso noi stessi, viaggio di noi verso il Mondo.

Permettetemi di ricordare, in questo momento, coloro che mi hanno letto versi di Camões e di altri poeti, quando ancora non sapevo né leggere né scrivere.

Non sempre ne capivo il senso, ma è stato così che ho scoperto la musica della lingua e il ritmo che per sempre sono rimasti dentro di me.

Permettetemi di condividere questo riconoscimento con i maestri della scuola elementare che mi insegnarono a scrivere il portoghese.

Permettetemi di sottolineare l’importanza che per me hanno avuto poeti sconosciuti, come i ciechi che, nella via in cui sono nato, ad Águeda, cantavano versi d’amore  e di tragedia, ora ispirati a fatti reali ora ricalcati dai “rimances” del “Cancioreiro português” (Canzoniere portoghese).

Sono quello che sono grazie alla famiglia, al popolo, e ai poeti con i quali ho appreso i misteri e i segreti della poesia sino a ottenere, a un alto prezzo e dopo aver stracciato molti quaderni, un verso mio e una voce che credo siano miei.

Questa è un’ora difficile per l’Europa e per ciascuno dei nostri paesi.

Manca grandezza, mancano statisti, manca un’altra visione dell’Europa e del Mondo, mancano gli ampi orizzonti della grande letteratura.

Bisogna sovvertire il discorso grigio e tecnocratico e recuperare la forza primordiale della parola. Le domande e le risposte non si trovano nei manuali di economia.

Forse si trovano in Cervantes, nell’idealismo di Don Chisciotte e nella saggezza di Sancho Panza.

Forse bisogna ritornare alla Grecia e a Roma, dialogare di nuovo con Platone, riprendere da Sofocle la così attuale lezione di Antigone e riscoprire, con Seneca, che “ciascun giorno è, di per sé stesso, una vita”.

Rileggere le lettere di Cicerone, scoperte da Petrarca, e quella prosa che, più di qualsiasi altra, influenzerà la storia della letteratura europea.

Ritornare ad Elsenor per fare con Amleto la domanda decisiva sull’essere e il non essere.

Oppure cercare di comprendere, con Dino Buzzati e il suo favoloso romanzo Il deserto dei Tartari, una crisi che è, soprattutto, crisi di civiltà. O forse decifrare il segreto dei labirinti nel Giardino delle strade che si biforcano di Jorge Luís Borges.

La poetessa portoghese Sophia de Mello Breyner, mia cara amica, ha scritto tre versi in cui dice quasi tutto sull’arte della poesia, che è l’arte di domandare e di dare nomi: “Andavo e venivo / E ad ogni cosa domandavo / Che nome aveva”.

Leggo e rileggo molte volte il grande poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade. Guardando il mondo attuale, mi vien da dire con lui: “C’era una pietra nel mezzo del cammino / Nel mezzo del cammino c’era una pietra / C’era una pietra nel mezzo del cammino”.

Che possiamo fare noi in tempi di indigenza, come si domandava Hölderlin? Quel che possiamo fare è quello che faceva lo sciamano delle società primitive: ripetere ritmicamente parole magiche, scongiurare la crisi, riabilitare la poesia e la vita, togliere la pietra dal “mezzo del cammino”.

La mia età è avanzata.

Ho a volte la sensazione di avere vissuto varie vite in una sola vita e di essere stato varie persone nella stessa persona.

Ho conosciuto i momenti estremi: guerra, prigione per motivi politici, esilio. Ma ho anche avuto il privilegio di felicità incomparabili, come la vittoria della Rivoluzione dei Garofani e la riconquista della libertà.

Sono solito dire che la mia vita è stata tesa, densa, intensa.

Forse per questo i miei romanzi hanno un’impronta autobiografica. Non posso dire che la vita non mi abbia dato giustizia.

Ho ricevuto i principali premi letterari della lingua portoghese. La Repubblica mi ha concesso le più alte onorificenze.

Ma di tutti i miei premi il più importante è stato il riconoscimento e l’affetto dei miei lettori.

Una parola speciale per l’impegno con cui la Prof.ssa Sandra Bagno si è dedicata, in questa Università, all’insegnamento della lingua portoghese e alla Cattedra alla quale generosamente è stato attribuito il mio nome.

Un ringraziamento a tutti i professori e studiosi, alcuni qui presenti, che hanno contribuito alla divulgazione della mia opera e di altri autori di lingua portoghese.

Il mio sentito ringraziamento all’Ambasciatore del Portogallo, dottor Francisco Ribeiro Telles, e al Presidente dell’Instituto Camões, Ambasciatore Luís Faro Ramos, la cui presenza conferisce a questo avvenimento un significato che mi onora e conforta.

Sono stato e sono, innanzi tutto, uno scrittore e poeta civile.

Questo è per me un momento unico. Nessun onore è comparabile a quello della Laurea ad Honorem in Lingue e Letterature Europee e Americane che oggi mi è concessa.

Umilmente e con grande emozione ringrazio il Magnifico Rettore per il privilegio di vedere il mio nome figurare a fianco degli illustri personaggi che hanno ricevuto questo alto riconoscimento dall’Università di Padova fondata nel 1222 sulla più bella delle parole: «LIBERTAS», Libertà.

Manuel Alegre

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