UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università, più debiti che istruzione

Jheresa Lewis si è diplomata a maggio nella scuola superiore di Baldwin, un paesino di poco più di mille anime nel Michigan occidentale. Durante l’estate, ha accettato un lavoro in un cantiere edile per guadagnare qualche quattrino, un’assoluta necessità in una famiglia come la sua, con il padre in galera e il conto in banca sempre vuoto. Ma Lewis, di cui ci racconta il mensile The Atlantic, è anche una brava studentessa, determinata a iscriversi all’università. Date le ristrettezze finanziarie, Lewis aveva inizialmente deciso di frequentare il West Shore Community College: due anni di studi e vicino a Baldwin, così da rimanere vicino a casa e non dover spendere una montagna di soldi. Ma durante le visite ai college effettuate durante l’ultimo anno di liceo, Lewis aveva messo gli occhi, e il cuore, anche su Oakland University, un’istituzione quadriennale, e più costosa, nella più lontana area metropolitana di Detroit. Per sua fortuna, Lewis ha completato i propri studi alla Baldwin High School in una nuova era, l’era della cosiddetta Baldwin Promise. Questo programma garantisce a tutti i diplomati locali una borsa di studio di 5.000 dollari l’anno per un massimo di quattro anni, da spendere in qualsiasi università pubblica o privata in Michigan. La “Promise”, insomma, è un tentativo da parte di questa piccola comunità di aiutare i propri ragazzi a far fronte ai costi montanti dell’università in America e ha già fatto sì che, in appena qualche anno (è stata lanciata nel 2009-2010), la percentuale di diplomati di Baldwin che va al college sia salita da un misero 30% a quasi il 100%. E ha permesso quest’anno a Jheresa Lewis di partire per la Oakland University. 

“Sono una convinta sostenitrice di qualsiasi sforzo per rendere il college meno costoso – dice Adela Soliz, una studiosa del Brown Center on Education Policy a Washington DC – Dobbiamo però valutare con attenzione quale sia il modo migliore di raggiungere questo obiettivo, che impieghi i nostri soldi il più efficientemente possibile e che aiuti la popolazione di studenti che ne ha davvero bisogno”. 

Il debito accumulato dagli americani per frequentare l’università ha ormai raggiunto proporzioni epiche, con oltre 1.300 miliardi di dollari. I laureati del 2015 avranno, in media, 35.000 dollari di passivo a testa, 2.000 dollari in più dei colleghi che hanno finito gli studi nel 2014. Questi numeri si scontrano con i proclami dei governi federale e statali di voler vedere più ragazzi andare all’università e con i dati che dimostrano che una laurea può fare una differenza enorme a livello di reddito. Una stima della Federal Reserve Bank di San Francisco quantifica tale gap: nel corso della propria carriera il laureato tipico guadagna circa 800.000 dollari in più di un semplice diplomato.

Nonostante la crisi del debito studentesco non accenni a migliorare, negli ultimi anni si sono cominciati a registrare alcuni interessanti movimenti su questo fronte, sia a livello nazionale sia a livello locale. L’aAmministrazione Obama ha attuato negli ultimi anni diverse iniziative per cercare di alleviare il problema, agendo in particolare sui prestiti che sono erogati, o perlomeno garantiti, dal governo di Washington. La Casa Bianca ha dunque offerto a diversi gruppi di laureati-debitori termini di pagamento più favorevoli, e in alcuni casi anche la cancellazione completa del debito ancora pendente. Intanto, i candidati democratici alle elezioni presidenziali del 2016 stanno mettendo a punto le proprie proposte sull’istruzione. Il senatore del Vermont Bernie Sanders ha così dichiarato di voler rendere gratuite tutte le università e college pubblici americani, mentre Hillary Clinton vuole mettere a disposizione degli studenti americani un maggior numero di borse di studio, che non devono essere ripagate, e di prestiti con tassi di interesse particolarmente bassi. 

Nel tentativo di mettere un punto al costo impazzito dell’università, si stanno inoltre adoperando anche una serie di amministrazioni statali e municipali in giro per il Paese. Come quella di Baldwin, e quella della vicina Kalamazoo, sempre in Michigan, con la sua più famosa Kalamazoo Promise, e ancora in Tennessee, e in Oregon. Trentacinque programmi di questo genere sono nati negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2014. “Ognuno di essi ha le proprie caratteristiche e il panorama è molto variegato – dice Soliz – Quello che li accomuna è il fatto che si rivolgono a tutti gli studenti di una certa municipalità o stato e non sono in alcun modo legati alla performance dei borsisti durante gli anni di scuola superiore, il che li distingue dall’ondata di iniziative basate sul ‘merito’ che ha caratterizzato invece gli anni ‘90 e 2000”. Tale approccio è stato molto criticato perché tende a favorire gli studenti della classe media anziché quelli poveri che ne avrebbero più bisogno. I primi, infatti, ricevono solitamente maggior sostegno dalle famiglie e tendono a diplomarsi con maggior agevolezza dei secondi. Le ‘Promise’ impongono però anch’esse alcune condizioni: sono quasi sempre disponibili solo a chi risiede in loco da un determinato numero di anni e, una volta al college, impongono ai ragazzi che ricevono i finanziamenti di frequentare le lezioni a tempo pieno e di mantenere una media minima di voti (GPA), solitamente pari ad almeno 2.0 su 4.0. 

A parte questi tratti comuni, le differenze rimangono. Al contrario della Baldwin Promise con i suoi 5.000 dollari l’anno, la Kalamazoo Promise, anch’essa finanziata privatamente, copre completamente le tasse di iscrizione e frequenza dell’università per i diplomati della città, indipendentemente da quanto siano alte o basse. La Tennessee Promise, invece, stanzia solo i soldi necessari a ottenere i diplomi di laurea biennali offerti dai community college. Variano inoltre le modalità con cui questi fondi possono essere usati in parallelo con quelli federali (in alcuni casi, gli studenti sono obbligati prima a ottenere le borse di studio finanziate da Washington, e solo al loro esaurimento possono attingere alle casse locali; in altri casi, le due fonti di finanziamento possono essere utilizzate simultaneamente).

Rimangono infine alcuni dubbi sull’efficacia di questi programmi. “Come per quelle precedenti basate sul concetto di ‘merito’, una delle critiche fatte alle ‘Promise’ è che esse finiscono per erogare più fondi agli studenti della classe media e medio-alta e meno ai poveri, giacché questi ultimi sono già coperti dai quelli federali – dice Soliz – Inoltre, anche se non c’è dubbio che questi programmi contribuiscano a far aumentare la percentuale di diplomati che inizia l’università, in molti pensiamo che invece sia ora di concentrarsi piuttosto sul numero di studenti che riesce a completare gli studi e a laurearsi.” Un rapporto pubblicato quest’anno dall’Upjohn Institute for Employment Research rileva per la prima volta un legame tra la Kalamazoo Promise e l’aumento non solo del numero di iscritti al college, ma anche quello parallelo (benché più modesto) di laureati. 

“Anche se sono parzialmente scettica sui meccanismi concreti che sottendono queste nuove politiche - conclude Soliz - vorrei però sottolineare che sono assolutamente convinta che dobbiamo rendere il college più accessibile a tutti. Gli studenti non dovrebbero essere obbligati a indebitarsi fino al collo solo per andare all’università”. 

Valentina Pasquali

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012