CULTURA

Venezia, il ghetto e il rispetto della diversità

Li giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo”. Era il 29 marzo 1516 quanto il Senato della Serenissima Repubblica impose agli ebrei veneziani di risiedere nel sestiere Cannaregio, in un luogo chiuso da due porte che di notte dovevano essere serrate da quattro custodi cristiani.

Nasceva ufficialmente il ghetto: ancora oggi una delle parole italiane – anzi: veneziane – più famose ed esportate in tutto il mondo. Non che ci sia molto da vantarsi, dato che dappertutto il termine è sinonimo di emarginazione, disagio, violenza e razzismo. Ma le sue origini, come spesso accade, non hanno molto a che vedere con il significato che poi gli è stato attribuito: “Qui si stendeva anticamente un tratto di terreno, chiamato il getto, o il ghetto – scrive Giuseppe Tassini nelle sue Curiosità veneziane del 1863 – perché... era la sede delle pubbliche fonderie, ove si gettavano le bombarde, e del magistrato presidente delle stesse”.

Così lo scorso 29 marzo sono stati celebrati i 500 anni dalla fondazione, con il consueto corteo di autorità, iniziative culturali e un concerto alla Fenice. Non tutti sono d’accordo: Riccardo Calimani, autore di molti libri tra cui una fortunata Storia del Ghetto di Venezia tradotta in varie lingue, non nasconde la perplessità: “Non c’è nulla da festeggiare; gli ebrei in ghetto non volevano andarci, sono stati costretti”. Ma per secoli non era stata la stessa comunità a chiedere un posto in Laguna? “Certo, ma non chiuso di notte e sorvegliato!”.

Perché proprio il ghetto di Venezia è così importante? “Perché si tratta del primo esempio con questo tipo di giurisdizione e di controllo. Nel 1555 nasce anche quello di Roma, ma con caratteristiche molto diverse. Lì vigeva la dottrina di Sant’Agostino: conservare il popolo ebraico come testimone, e allo stesso tempo opprimerlo perché non ha riconosciuto la vera fede. A Venezia l’approccio è più pragmatico e basato sul reciproco interesse: qui gli ebrei sono prestatori e mercanti, non ‘strazzaroli’”. Di lì il ‘successo’ straordinario di un concetto nato all’ombra di san Marco: “In realtà il merito è della Serenissima, un luogo che rendeva straordinario tutto ciò che illuminava, persino il ghetto. Poi certo, anche Shakespeare ha avuto la sua parte con il Mercante di Venezia”.

La storia della famiglia di Calimani – classe 1946, una laurea in ingegneria elettrotecnica a Padova a una in filosofia della scienza a Venezia – si intreccia profondamente con quella dello storico quartiere veneziano: proprio nel 1516 un Calimano, ‘homo bono e onesto’ fu costretto a entrare in ghetto, e oltre quattro secoli dopo fu proprio Riccardo il primo a nascere fuori dal cancello, in una casa posta a poche decine di metri. Non c’è anche una forma di nostalgia per un mondo a parte, dove vivere tra ebrei rispettando le proprie usanze? “Con il tempo il ghetto è diventato anche protezione e cultura, ha acquistato una qualche valenza positiva. Qui sono stati stampati libri poi diffusi in tutta Europa. Questo però non toglie che fu anzitutto un luogo di segregazione”.

Insomma, a cinque secoli di distanza non è comunque il caso di festeggiare: “Io sono stato a casa mia, non sono d’accordo con le celebrazioni troppo pompose. Ci vorrebbero messaggi più chiari e meno enfatici: un convegno di studio, un volume di vari studiosi”. Non è escluso che ce ne siano, anzi. “Non dico che tutto è negativo, ma mi sarebbe piaciuta meno mondanità. Ognuno ha il suo carattere”. E allora come commemorare questa ricorrenza? “Innanzitutto tentando di capire il significato di questa esperienza storica: una lunga lotta di un gruppo di uomini che anelavano alla libertà, nel rispetto della loro diversità”.

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