Come ripartì la vita dell’ateneo dopo le ferite della Seconda Guerra Mondiale; quali problemi dovette affrontare fino agli ultimi anni Sessanta, quando anche Padova si apprestò a vivere la contestazione sessantottesca? Quali trasformazioni si verificarono nelle istituzioni, nel corpo docente, nella vita studentesca?
Parte da queste domande Dall’università d’élite all’università di massa, il volume edito dalla Padova University Press curato da Alba Lazzaretto e Giulia Simone, esito dell’omonimo progetto in capo al dipartimento di Scienze storiche geografiche e dell’antichità (DiSSGeA) in collaborazione con il Centro per la storia dell’università di Padova. Un lavoro che si basa su un’ampia e approfondita ricognizione del materiale archivistico esistente (atti del senato accademico, verbali di facoltà, annuari di ateneo, memorie di rettori, prolusioni e convegni di studio, manifesti e volantini, testimonianze dirette…) su un periodo paradossalmente ancora poco studiato sotto molto aspetti.
Una raccolta di studi uscita proprio in prossimità del cinquantesimo anniversario del 1968, da molti ritenuto uno spartiacque fondamentale per il Paese e in particolare per il sistema universitario. E la svolta richiamata dal titolo effettivamente ci fu, perlomeno nei numeri; solo a Padova gli iscritti passarono dai circa 10.000 del 1960 (cifra piuttosto stabile dalla fine della guerra) agli oltre 30.000 dell’anno accademico 1968-69: tanti ragazzi nati subito dopo la guerra, molti dei quali provenienti da famiglie modeste che finalmente iniziavano a vedere nell’università un’occasione di riscatto sociale per i loro figli.
Certo anche in epoche passate c’erano stati periodi di crescita impetuosa: dal migliaio di iscritti di fine Ottocento si era ad esempio passati ai 4.000 del 1934-35, per arrivare a 6.000 nel 1940-41 e a quasi 9.000 del 1942-43. Facendo tuonare l’allora rettore Carlo Anti contro l’afflusso di “giovani del tutto inadatti agli studi universitari per preparazione mentale e per capacità intellettuale, attirati solo dal ‘buon mercato’ della laurea”. Stavolta però era diverso: la Costituzione del 1948 prometteva a tutti democrazia e uguaglianza, anche nell’accesso all’istruzione. Così scuola e università vennero a un certo punto investite di un ruolo per cui forse non erano ancora preparate.
A livello nazionale l’accesso ai corsi di laurea era ancora saldamente ancorato al tipo di diploma di scuola superiore conseguito (la liberalizzazione arriverà nel 1969), mentre a livello accademico il potere era concentrato esclusivamente nella ristretta cerchia dei professori ordinari, escludendo gli altri docenti e soprattutto gli studenti.
In questo quadro generale Padova presenta le sue specificità, a partire da un sistema di potere cittadino estremamente stabile, ai limiti dell’inamovibilità. Mentre a Palazzo Moroni siede dal 1947 al 1970 il sindaco Cesare Crescente, a Palazzo Bo Guido Ferro è rettore dal 1949 al 1968: ben sei mandati a cui pongono fine proprio le contestazioni studentesche. E va anche tenuto conto del lungo episcopato di Girolamo Bortignon, dal 1949 al 1982: elemento certo non trascurabile nel Veneto di allora. Dal 1962 al 1968 a reggere il ministero dell’Istruzione è infine il padovano Luigi Gui, autore di un progetto di riforma – il cosiddetto “Piano Gui” – incentrato sulla formazione dei dipartimenti e sull'istituzione di tre livelli di laurea, che per molti versi precorre le riforme successive ma che diventa quasi subito l’obiettivo polemico delle organizzazioni studentesche.
All’inizio le istituzioni universitarie tentano di reagire al mutamento delle condizioni con una politica di lievi concessioni: si aumentano ad esempio i corsi di laurea (dai 17 del 1945 ai 30 del 1968), mentre intanto si cerca di dare una rappresentanza più incisiva agli studenti, consolidando sempre più il ruolo del tribuno degli studenti (che dalla metà degli anni ’50 è eletto e non più scelto “a botte”) e affiancandogli un consiglio di tribunato.
Aperture che comunque non toccano nella sostanza la gestione e gli equilibri interni dell’università, di fronte alle organizzazioni studentesche che alla fine degli anni Sessanta alzeranno sempre più il livello delle richieste, chiedendo ad esempio la cogestione “democratica” e assembleare degli spazi e dei programmi, l’abolizione degli esami e il voto politico. Così alla fine del ’67 iniziano le occupazioni delle facoltà: in gioco c’è sempre più anche un conflitto generazionale che contrappone studenti a docenti, con crescenti venature politiche e sociali e risvolti estremistici di opposte tendenze. Padova, “città di vipere” secondo lo storico Angelo Ventura, si sarebbe presto dimostrata un laboratorio politico particolarmente inquietante e violento: dalle bombe di matrice nera, persino nello studio del nuovo rettore Enrico Opocher, al primo omicidio delle Brigate Rosse, commesso alla sede del MSI in via Zabarella (1974). Fenomeni che colpiscono profondamente il corpo docente padovano, che – scrive nel suo contributo la curatrice Alba Lazzaretto – “si divi[d]e profondamente tra progressisti e conservatori, ma alla fine il sentimento prevalente sembra essere quello dello sgomento”.
Un ruolo sicuramente da protagonista in quegli anni è sicuramente quello assunto da studenti e professori della facoltà di Scienze politiche, a cui è dedicato un secondo libro di Giulia Simone, appena pubblicato da Franco Angeli (La Facoltà Cenerentola. Scienze politiche a Padova dal 1948 al 1968): un microcosmo particolarmente interessante nel riflettere un certo tipo di evoluzione comune in quegli anni a diversi segmenti della società.
Nata durante il regime come “la più fascista della facoltà” e per questo scampata per poco allo scioglimento nel dopoguerra, dopo il 1948 Scienze politiche diventa, prima sotto la guida del sacerdote Anton Maria Bettanini (1948-1959) e poi sotto quella di Ettore Anchieri (1959-1968), un tranquillo feudo conservatore, piccolo e piuttosto marginale rispetto ai veri centri di potere dell’ateneo. Tutto progressivamente cambia nel anni ‘60 con l’arrivo di una massa crescente di studenti, attratti dagli insegnamenti della facoltà, e soprattutto di alcuni giovani professori, tra cui spiccano i nomi di Gabriele De Rosa e di Antonio “Toni” Negri. Proprio i giovani docenti infatti, spesso non strutturati, svolgeranno un ruolo chiave nel movimento studentesco, affiancando e non di rado guidando gli studenti nelle loro rivendicazioni.
Il 1968 insomma è l’approdo di un complesso insieme di fattori, che però stavano maturando sotto la cenere da almeno un decennio. E quando finalmente ci si renderà conto che molto, troppo è cambiato, sarà forse troppo tardi per correre ai ripari.